Il giorno in cui Vallo conobbe la guerra: 15 settembre 1943

In una giornata di fine estate ancora calda e gradevole, Vallo all’improvviso vive l’esperienza più drammatica di una guerra. Il 15 settembre del 1943, poco dopo mezzogiorno, viene bombardata, forse per caso, forse intenzionalmente, ma con effetti tragici.

Aerei, quasi certamente alleati (americani), sganciano alcune bombe che cadono in vari punti dell’abitato. Due, in particolare, sono i quartieri colpiti: Spio e S. Pantaleo (Piediscalella, altrimenti detto “abbascio sammandaleo”). Sotto le macerie dei diversi edifici colpiti rimangono 17 vittime. Di queste, 9 sono bambini e bambine. È il tributo di sangue più alto del paese al conflitto mondiale, che pure, al suo termine, conterà numerose vittime tra i militari chiamati a combattere sui vari fronti.

L’elenco delle vittime lo troviamo scolpito alla base del monumento ai caduti sito nella piazza principale, eretto in ricordo di quelli della Grande guerra (quella del 1915-18) e poi, purtroppo, necessariamente esteso alla memoria anche dei morti della Seconda guerra mondiale.

Dell’evento parla diffusamente un bel volume pubblicato nel 2011 dal comune di Vallo e scritto dall’infaticabile Lodovico Calza, con la cura, il garbo e l’afflato che gli sono propri, quelli di uno storico provetto che, ricorrendo alle interviste a protagonisti e discendenti, costruisce un libro-testimonianza, un documento assai importante sul piano storiografico. Oggi, a ottant’anni da quei fatti, ne cogliamo anche l’alto valore civile e culturale.

Monumento ai caduti di Vallo. Elenco delle vittime del 15 settembre 1943
Monumento ai caduti di Vallo. Elenco delle vittime del 15 settembre 1943
Il libro che ricostruisce il bombardamento vallese
Il libro che ricostruisce il bombardamento vallese

Alcune testimonianze tratte da quel testo sono davvero impressionanti, consentono quasi di vivere la drammaticità di quell’esperienza. Leggiamo quella della signora Elena Cammarano, che all’epoca aveva 18 anni, intervistata a luglio del 2010:

In quel tragico giorno, che non ho mai dimenticato, i nostri genitori erano in campagna per cercare qualche cosa da mangiare per cena e per il giorno dopo, tanta era la miseria e la fame. Io stavo riscaldando delle patate che poi avrei consumato con le mie sorelle e mio fratello. Eravamo in sei: io, Vincenzo, Marianna, Giovanna, Vincenza e Gaetanina. All’improvviso sentimmo un gran rumore d’aereo a bassissima quota. Dalla finestra aperta entrò una gran luce e il rumore assordante di uno scoppio: la bomba aveva colpito la nostra casa, allo ‘Spio’. Un mattone mi era caduto sul capo, mentre sprofondavo in basso assieme al pavimento. Rimasi sepolta con mia sorella Gaetanina. Sopra di noi sentivamo una persona che continuava a gridare: ‘Mamma mia!”, come se avesse perso la testa. Era un certo S. al quale chiedevamo aiuto, ma non ci sentiva. In quei momenti temevamo di morire. Annaspando fra calcinacci, pietre e travi di legno, dopo qualche tempo, sempre temendo di essere travolte da altri crolli e facendo molta fatica a muoverci e a respirare per la polvere che filtrava ovunque, finalmente riuscimmo ad uscire da sole. Quando ci ritrovammo insieme, ci accorgemmo che Giovanna di 12 anni e Vincenza di 9 non erano con noi. Sperammo che si fossero allontanate per lo spavento. Papà e mamma le cercarono per due giorni percorrendo in lungo e in largo il paese e le campagne attorno, inseguendo la speranza che fossero ancora vive, perché qualcuno aveva detto d’averle viste in giro. Non le trovarono perché erano volate in Cielo con altre bambine quando era caduto sulle loro teste un balcone, mentre erano sedute sui gradini di una scala di fronte a casa nostra. Con loro, se ricordo bene, c’erano le piccole Franca Sansone di 7 anni; Giuseppina Sirignano di 9 anni; Vittorio di 3 anni e Tommasina Aiello di 11 anni”.

Un racconto da brivido da parte di una sopravvissuta, che ci parla di sei dei nove bambini morti quel giorno solo perché sostavano su quei gradini, magari giocando o chiacchierando spensieratamente in attesa del magro pranzo che i genitori avrebbero procurato arrangiandosi alla meglio.

Una testimonianza particolare ma non meno drammatica è quella di Giovanna Nicoletti, anch’essa intervistata a luglio del 2010:

Sono figlia di Angelo Nicoletti e di Maria Teresa Cortazzo, quando ci fu il bombardamento avevo 20 mesi. Perciò, quel poco che conosco me lo ha raccontato papà. Il 15 settembre, lui stava lavorando in un terreno dove oggi sorge il Poliambulatorio di Vallo. Corse subito a casa e trovò la famiglia distrutta. Sotto le macerie della sua casa allo ‘Spio’ erano sepolti la moglie, il suo piccolo Vincenzo di 3 anni e la sua bambina Maria di 8 anni. Li sentivano lamentarsi, ma quando li raggiunsero, erano deceduti. Io fui trovata viva sotto le macerie, con una gambina ferita. Mio fratellino Gaetano, per fortuna era fuori casa”.

Qui c’è tutta la tragicità del destino tra chi muore per le difficoltà e le lentezze dei soccorsi e chi si salva pur nella estrema fragilità dei suoi pochi mesi.

Tre delle vittime al rione Spio (da L. Calza, Vallo della Lucania e il Cilento meridionale nel settembre del 1943, Comune di Vallo 2011)
Tre delle vittime al rione Spio (da L. Calza, Vallo della Lucania e il Cilento meridionale nel settembre del 1943, Comune di Vallo 2011)

Un’altra testimonianza è quella di Carabella Ametrano, all’epoca venticinquenne:

Quando vi fu il bombardamento, ero affacciata con un’amica alla finestra di Palazzo Angelo Raffaele Nicoletti, dove abitavo, ad osservare le persone che passeggiavano per via Roma. Era mezzogiorno. Improvvisamente udimmo il rombo di due aerei, volavano affiancati in direzione di Vallo, ritengo da nord. Non facemmo in tempo a fare pochi passi per correre in giardino che una fortissima esplosione mandò in frantumi i vetri delle finestre: erano stati colpiti i due rioni di Vallo, lo ‘Spio’ e San Pantaleo. In giardino non esisteva nessun rifugio ma, così ci dicemmo, facendoci coraggio, almeno non saremmo stati sepolti dalle macerie se la casa fosse stata colpita. Quando gli aerei si allontanarono, mentre intorno a noi le persone si muovevano in una confusione indescrivibile, fuggimmo nella campagna”.

Rappresentazione plastica del repentino passaggio dalla tranquillità di una giornata estiva dedita al passeggio all’incubo delle bombe che possono seppellirti sotto la tua stessa casa. Cosa, quest’ultima, che accade all’allora quasi ventenne Adelina Melone, nel suo drammatico racconto:

Il 15 settembre, verso mezzogiorno lavoravo all’uncinetto di fronte ad una finestra che illuminava le scale. Improvvisamente sentii un rombo fortissimo di aerei, corsi da papà e con lui scendemmo giù, per ripararci sotto l’arco che dava l’accesso alla legnaia. Un aereo americano, mi dissero poi, attaccato da un caccia tedesco per alleggerirsi e poter fuggire più celermente, sganciò delle bombe su Vallo. Una bomba colpì la nostra casa, nel quartiere S. Pantaleo, a circa 50 metri sotto la Cattedrale, e un’altra fu sganciata su alcune case allo ‘Spio’… La bomba che colpì casa nostra, dopo aver attraversato i due piani, esplose nel pozzo che serviva alle sei famiglie della casa per lavare e innaffiare. La casa crollò, seppellendo una donna con la figlia di 19 anni. Io e papà ci salvammo protetti dal robusto arco in muratura, ma restammo imprigionati dalle macerie. Vivemmo momenti di terrore. Nel buio completo, la polvere dei calcinacci mi entrava nei polmoni dandomi la sensazione di soffocare. Le orecchie mi fischiavano per lo spostamento d’aria. Piangevo e mi disperavo mentre papà cercava di rincuorarmi. Sentivo che mamma continuava a chiamare i nostri nomi, con angoscia. I soccorritori, intanto, scavando per tirarci fuori, avevano aperto un piccolo varco nelle macerie da cui filtrava un po’ di luce. Per quanto scioccata, per affrettare la liberazione, iniziai ad allargare il buco dall’interno con le mani fino a spellarle. Restammo sottoterra per due ore. Quando fummo liberati, volli vedere la ragazza mia amica, che era morta. Ancora calda, stava stesa su un tavolaccio. Poi mi portarono all’‘Ospedale’ del Dott. Lettieri”.

Un’esperienza che segnò il resto dell’esistenza della signora e che ci parla delle due vittime provocate dalla bomba caduta in zona Cattedrale (le altre quindici si ebbero tutte al rione Spio).

(da L. Calza, Vallo della Lucania…)
(da L. Calza, Vallo della Lucania…)
(da L. Calza, Vallo della Lucania…)
(da L. Calza, Vallo della Lucania…)

Di queste – mamma e figlia – ci racconta Antonia Ruocco con la sua testimonianza indiretta della tragedia occorsa al padre, allora diciottenne, Pantaleo, per tutti “Luccio”. “Mio padre”, esordisce, mentre lavorava come apprendista barbiere in piazza, quella mattina del 15 settembre, all’improvviso, verso le 12.30, sentì un “fortissimo rombo di aerei che volavano a bassa quota, subito dopo un sibilo lacerante seguito dall’esplosione di una o più bombe. Istintivamente, mio padre decise di correre verso la sua casa per accertarsi che nulla fosse accaduto ai famigliari e forse per cercare un rifugio sicuro”. Luccio, infatti, abitava con la famiglia nel quartiere San Pantaleo. “Giunto vicino a casa, mio padre vide solo delle macerie in una nube di polvere così densa da coprire e nascondere tutto, e preso dal presentimento angoscioso che qualche cosa di grave fosse accaduto alla sua famiglia, cominciò a chiamare a gran voce la mamma e il padre. Qualcuno, intanto, gli si avvicinò e gli disse che, purtroppo, sua madre e sua sorella probabilmente erano rimaste sotto le macerie della casa, mentre di suo padre non si sapeva nulla. (…) La sorella di papà, che aveva solo 19 anni, fu estratta dalle macerie lo stesso giorno; invece per recuperare la madre ce ne vollero 8: alla fine si pensava di sospendere le ricerche ma le preghiere insistenti di mio padre valsero a persuadere le Autorità a far continuare lo scavo perché la mamma avesse una degna sepoltura”. L’unica notizia positiva è che il padre, invece, dato per disperso all’inizio, fu poi ritrovato.

Le due vittime al rione S. Pantaleo (da L. Calza, Vallo della Lucania…)
Le due vittime al rione S. Pantaleo (da L. Calza, Vallo della Lucania…)

Seppur capaci di offrirci un quadro assai vivo di quegli eventi, queste testimonianze – e le numerose altre raccolte e commentate nel volume – sono in genere imprecise e contraddittorie quanto alla dinamica dei fatti. Essendo soggettive, non riescono a rispondere alle domande riguardanti il numero degli aerei e delle bombe, il tipo di velivolo, la sua nazionalità e, soprattutto, le motivazioni di quel bombardamento (se ve ne furono). L’ampia analisi compiuta da Calza, anche se lascia spazio ad altre ipotesi e non intende prendere posizioni definitive, lasciando al lettore la libertà di farsi una sua idea, in particolare, sulle cause, arriva a delle conclusioni se non definitive largamente condivisibili. Queste: a sorvolare Vallo quel 15 settembre fu più di un aereo, probabilmente due; si trattava di cacciabombardieri americani del tipo P 38-Lightnings (cioè “Fulmine”), quelli a “doppia coda” cioè con una doppia fusoliera; le bombe sganciate dovettero essere all’incirca 6, ma solo due fecero danni; il bombardamento non fu un errore o una necessità dovuta a uno scontro con aerei tedeschi, ma dovette essere intenzionale nel senso che gli aerei, provenienti da nord (la zona dello sbarco) e di ritorno agli aeroporti siciliani, in cerca di truppe nemiche nelle retrovie, “per non atterrare con le bombe sotto le ali, le avrebbero sganciate sul primo grosso abitato lungo la rotta di ritorno, nel nostro caso Vallo, forse perché credevano che i tedeschi fossero ancora nel paese” (Calza, p. 272).

Dunque, pur non essendo un obiettivo militare, Vallo offriva quelle circostanze che dovettero motivare lo sganciamento degli ordigni. L’ipotesi appare credibile, anche perché il paese era stato attraversato dalle colonne di alcune divisioni tedesche dirette a nord probabilmente proprio qualche giorno prima (come lo stesso Calza accerta attraverso le interviste e i riferimenti documentari).

Il modello degli aerei che, presumibilmente, sganciarono le bombe su Vallo (A. Petacco, La Seconda guerra mondiale, A. Curcio Editore, Roma, vol. III, pp. 986-7)
Il modello degli aerei che, presumibilmente, sganciarono le bombe su Vallo (A. Petacco, La Seconda guerra mondiale, A. Curcio Editore, Roma, vol. III, pp. 986-7)

Spostandoci dalle cause alle conseguenze e tornando in paese, i soccorsi arrivarono con celerità, tenendo conto della situazione. I primi a portarsi presso le macerie dovettero essere il vescovo De Giuli e, probabilmente, il suo vicario, mons. Nicodemo, i quali, se erano nella sede della curia lì vicino, avvertirono il boato e lo spostamento d’aria degli ordigni. Arrivarono anche i Padri Saveriani dell’Istituto per le Missioni Estere di Massa e, via via, autorità e cittadini. Inizialmente, si dovette scavare con le mani, le operazioni durarono giorni, nessuno era preparato non avendo esperienza al riguardo. Era il primo bombardamento subito dal paese. Mentre i morti venivano portati nella vicina chiesa di S. Nicola, i feriti erano ricoverati presso la clinica Lettieri o quella del prof. Leopoldo Cobellis. Si dovette pensare anche agli sfollati, a quanti, più numerosi ancora, avevano perso la casa perché crollata o pericolante. Si trovò la soluzione di ospitarli nell’edificio delle Scuole elementari, all’epoca quasi nuovo (era stato completato nel ’35), e in quello dell’ex Conservatorio di S. Caterina, nell’omonima piazza.

Mons. Raffaele De Giuli nel 1936 (foto G. Di Vietri)
Mons. Raffaele De Giuli nel 1936 (foto G. Di Vietri)

La situazione, però, era difficile. All’indomani del crollo del regime, dell’armistizio e dello sbarco alleato nella pianura pestana, anche Vallo viveva giorni non facili, con i tedeschi che lasciavano il paese per risalire verso la piana, gli angloamericani in arrivo e la presenza di non pochi soldati italiani sbandati, alcuni dei quali provenienti dalla Sicilia. Una transizione complessa e non indolore dal fascismo a un futuro indefinito, dall’ultimo podestà, l’avv. Pasquale Pinto, al commissario prefettizio che già risponde alle nuove autorità, l’avv. Francesco Castiello, insediatosi presumibilmente verso la fine di quello stesso mese e, agli inizi di dicembre, sostituito dal dott. Luigi Cobellis.

Il Comune, però, è praticamente in default. Chiede e ottiene l’aiuto finanziario del Governo militare alleato. A ottobre, in una delibera, il Commissario scrive che “sia lo stato di guerra, sia l’occupazione militare di questa Città, sia l’incursione aerea che numerose vittime faceva tra la popolazione civile, arrecando gravi danni ad edifici pubblici e privati, hanno completamente paralizzato la vita cittadina, sia pubblica che privata”. Il Comune, continuava, “si è venuto a trovare nella condizione di far fronte ad urgenti elevate spese per spedalità, per assistenza ai sinistrati dell’incursione aerea e sfollati, per rimozione e sgombro di macerie, inumazione di numerose vittime, abbattimento di fabbricati pericolanti, riparazioni urgenti ad edifici pubblici, sistemazione della viabilità cittadina, aumento dei pubblici servizi”. Senza l’intervento delle autorità militari, vi sarebbe stato “il dissesto della civica azienda”, anche perché “non è stato possibile – si scriveva ancora nella citata delibera – chiedere sovvenzioni ad alcun Istituto di Credito, sia per la totale mancanza di comunicazione e sia perché questi hanno sospesa ogni attività”.

Il bombardamento, dunque, si innesta su una situazione già critica, aggravandola. Il contesto finanziario e logistico ha provocato la paralisi della vita locale, come provano il blocco dell’attività bancaria e l’impossibilità di comunicare. Strade pericolose o dissestate e mezzi di trasporto sempre più rari sono causa e conseguenza della crisi.

Una settimana circa dopo il bombardamento, il Commissario aveva comunicato alle autorità militari alleate che in paese c’erano oltre 500 sfollati, tre casi di tifo e un decesso per lo stesso motivo, poche riserve alimentari di grano, pasta e olio, una scorta di 31 quintali di farina “bastevole per soli giorni 7 in ragione di grammi 75 a persona non produttrice, da distribuirsi un giorno sì ed un altro no”.

La scarsità dei generi alimentari, oltre alle cause indicate, deriva dal malfunzionamento del sistema degli ammassi, dall’irregolarità nella gestione del razionamento dei prodotti di prima necessità, dalla “borsa nera”. In pratica, fin dall’inizio della guerra, chi produceva beni necessari, soprattutto alimentari ma non solo, non poteva venderli sul libero mercato, ma doveva consegnarli agli ammassi pubblici che provvedevano a distribuirli attraverso il sistema delle tessere annonarie rilasciate alla popolazione. Gli ammassi, però, pagavano a chi consegnava i prodotti un prezzo politico, cioè prestabilito dalle autorità e poco remunerativo. Molti erano indotti a non consegnare tutto e a vendere sotto banco quanto sottratto all’ammasso; naturalmente, a un prezzo maggiore, spesso molte volte superiore a quello calmierato. Questo era il meccanismo che generava il “mercato” o “borsa nera” e Vallo, come il resto del territorio, non ne era esente. Si trattava di dinamiche inflazionistiche in atto da tempo e che, nella drammatica estate del ’43, quando tutte le crisi provocate dalla guerra sono al loro apice, raggiungono dimensioni inedite e del tutto fuori controllo, al punto da ridurre poveri e ceto medio alla fame.

(da L. Calza, Vallo della Lucania…)
(da L. Calza, Vallo della Lucania…)
La piazzetta al rione Spio, oggi
La piazzetta al rione Spio, oggi

Un esempio rende chiara la situazione. Tra dicembre ’43 e gennaio ’44, passa per Vallo la “missione Stevenson”, voluta dal governo americano per conoscere la realtà delle zone italiane occupate dalle truppe Usa. Nel suo rapporto, si scrive:

Vallo della Lucania, a sud-est di Salerno, nel periodo in cui vi si trovava la missione è rimasto privo di pane per otto o dieci giorni. La popolazione di questo piccolo comune attendeva la ‘razione di Natale’ promessa dall’AMG, una razione extra di 100 grammi di pane e di 50 grammi di pasta, ma il 24 dicembre non era ancora giunto nulla”.

Pane, pasta e farina scarseggiavano o mancavano del tutto. Il paese dipendeva dagli Alleati, ma questi avevano difficoltà a garantire la continuità dei rifornimenti, viste le condizioni logistiche generali. Il pane, però, non mancava al “mercato nero” e le motivazioni sono chiare: il suo prezzo legale, cioè imposto, era di 3,60 lire al chilo, quello praticato con la vendita illegale era di 130 lire al chilo. Il prezzo politico non consentiva di rientrare nei costi, quello “nero” permetteva di vivere e, spesso, di arricchirsi. I prezzi sono quelli del mercato napoletano, a Vallo dovevano essere più bassi, ma lo squilibrio rimaneva, agendo il medesimo spirito speculativo.

Lo stesso accadeva per l’olio d’oliva, pagato dagli ammassi 19 lire al litro e venduto illegalmente a 120 lire al litro. Una differenza notevole, nonostante si trattasse della principale produzione alimentare locale, quindi presente con una certa abbondanza. Dal dato, traspare come fosse larghissima l’evasione all’obbligo dell’ammasso, che generava un fiorente “mercato nero” i cui prezzi variavano col tempo e da zona a zona. Nelle città, ovviamente, erano più elevati. A Napoli, ad esempio, nello stesso periodo, l’olio d’oliva era venduto “a nero” a ben 250 lire al litro; più del doppio che a Vallo, essendo merce rara.

Lapide commemorativa in Piazza Cattedrale
Lapide commemorativa in Piazza Cattedrale
Lapide commemorativa in Piazza Cattedrale
Lapide commemorativa in Piazza Cattedrale

Del protrarsi di questa situazione danno chiara testimonianza le parole del vescovo De Giuli scritte a febbraio del ’44:

È nostro preciso e grave dovere di levare la voce di severa condanna contro tutti coloro (contadini, padroni, commercianti, artigiani ecc.) che, approfittando delle attuali condizioni di disagio, cercano di arricchire in tutti i modi, costringendo i poveri a subire la fame per l’impossibilità di acquistare i prodotti della terra per i prezzi disonesti imposti o richiesti. Chiamiamo questa infame cupidigia con nome esecrabile di furto, strozzinaggio, usura. Pare incredibile che anche la semplice gente nostra sia stata invasa da follia chiudendo il cuore alla pietà per aprirlo alla bramosia del denaro. (…) Attenti a non tentare giustificazioni stolte e insostenibili: il furto è sempre furto anche quando fosse praticato da tutto il mondo”.

Parole da incorniciare, ma poco ascoltate se, a dicembre dello stesso anno, è costretto a ripetere il messaggio, scrivendo:

È vero che viviamo in tempi in cui tutti abbiamo bisogno perché gravi sono le esigenze quotidiane. Ma è pur vero che le disuguaglianze sociali persistono, e accanto all’operaio salariato v’è il contadino provvisto d’ogni ben di Dio; accanto all’impiegato, al professionista preoccupati del domani della famiglia vi sono i commercianti, i possidenti che vedono aumentare la loro ricchezza, mentre il povero si spoglia anche di un mobile per vivere la sua grama vita d’ogni giorno”.

E continua, dicendo che, chi ama Dio, oggi deve “aiutare il povero dividendo con lui il pane, piegando la ricchezza all’ufficio di serva del povero, negando alla cupidigia i facili, disonesti guadagni del mercato nero, vendendo i prodotti della terra ai prezzi onesti che ne permettano l’acquisto anche al povero”.

Siamo a Natale del ’44, la situazione a Vallo era certamente migliore rispetto al dicembre del ’43, ma le ragioni della crisi erano ancora tutte in piedi. La speculazione non era cessata, il Comune stentava ad aiutare i poveri ed era anche gravato dalle spese per alloggiare i senza casa e i tanti sfollati provenienti da diversi luoghi che continuavano a rimanere in paese. La normalizzazione socio-economica era di là da venire – d’altronde, la guerra continuava anche se il fronte si era spostato sempre più a nord – e la ricchezza era ben lungi dal farsi “serva del povero”, nonostante il generoso e infaticabile esempio del vescovo, il quale – come scrisse tempo dopo don Fulvio Parente – nei “giorni della fame diede fondo a quanto aveva, a tutto quello che riuscì ad acquistare o che ebbe in dono” e mostrò “un cuore di padre, sempre teso nell’aiutare tutti, fino all’impossibile”.

Lapide commemorativa al rione Spio
Lapide commemorativa al rione Spio
Lapide commemorativa al rione Spio
Lapide commemorativa al rione Spio

Author: manlio morra

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