Croce e delizia del Cilento è da sempre la sua tormentata orografia. È una terra con poche pianure, molte colline, moltissime montagne. Nonostante gli oltre cento chilometri di costa, la storia e la cultura delle sue genti è stata per secoli – e in gran parte lo è tuttora – più influenzata dalla montagna che dal mare, dall’entroterra montuoso che dalla costa. Insediamenti abitativi, relazioni sociali, rapporti commerciali, dinamiche di ogni genere non hanno mai potuto prescindere dalla difficile morfologia del territorio.
È vero che la natura, nel Cilento, sembra aver condensato tutti i paesaggi di cui è capace. Un mare che si incontra con una costa frastagliata ricca di cale e grotte, ma non priva di dolci insenature e di spiagge incantevoli; colline coperte di uliveti e vigneti, montagne ora verdi ora brulle che rendono il paesaggio alpestre, raggiungendo a volte quasi quota duemila; un reticolo fitto di fiumi, spesso poco più che torrenti, che fanno il territorio ricco di acque, scorrendo spesso in uno scenario naturale senza uguali per la sua selvaggia bellezza; poche vere pianure, come la pestana e la lunga depressione del Vallo di Diano, e, per il resto, solo le ristrette piane alluvionali alle foci dei fiumi Alento, Lambro, Mingardo e Bussento; e, infine, boschi, pinete, grotte carsiche, sentieri naturali, piccole vallate, una flora e una fauna ricca di endemismi e rarità.
Ma è anche vero che è soprattutto la montagna ad essere protagonista di questo territorio. Quando, nella seconda metà dell’Ottocento, lo studioso Cosimo De Giorgi intraprese il suo viaggio nel Cilento, con l’intento di mapparlo geologicamente, dinanzi al suo sistema insediativo, a quei paesi arroccati su cocuzzoli quasi irraggiungibili, scrisse che sembrava fossero stati “fondati da una popolazione di alpinisti, dalle gambe di acciaio e dai polmoni di granito” (Da Salerno al Cilento, Firenze, 1882, p. 100).
Quegli “alpinisti”, costretti dalla geografia e ancor più spinti dalla storia, crearono il paesaggio tipico cilentano, frutto di un rapporto dialettico, divenuto simbiosi, tra uomo e territorio.
Dicevamo “croce e delizia”, perché se il prevalere della montagna ha significato economia di sussistenza, mentalità chiusa e ritmo di sviluppo lento, quasi immobile, allo stesso tempo, ha comportato la preservazione dell’ambiente e la creazione di un paesaggio culturale unico. Oggi apprezziamo, in chiave turistica, quegli aspetti del territorio che un tempo facevano parlare i viaggiatori di un Cilento orrido, primitivo, aspro, fatto di montagne con un’insolita configurazione alpestre. Tali caratteristiche hanno costituito un fattore di attrazione nel corso dei secoli, addirittura già in preistoria.
Parliamo, in particolare, delle numerose grotte, cavità, siti sotto roccia, propri di un territorio montuoso e spesso carsico, che hanno formato quello che potremmo chiamare un paesaggio rupestre dal fascino arcaico e quasi magico.
Nelle località Cala d’Arconte, Capo Grosso e Cala Bianca, lungo il litorale tra Palinuro e Marina di Camerota, è attestata la presenza dell’Homo erectus nella fase più antica del Paleolitico (il Paleolitico inferiore, che in Europa è il periodo che va, grosso modo, da 1 milione e mezzo a 100mila anni fa). Successivamente, anche l’Uomo di Neanderthal frequenta l’area, perché vive in grotta e pratica la caccia, il che ne permette una presenza relativamente diffusa in un territorio come il Cilento ricco, appunto, di grotte e selvaggina, anche se vi arriva in una fase tarda, circa 40.000 anni fa. Egli trova riparo ancora tra Marina di Camerota e Palinuro, dove l’esplorazione scientifica ha riguardato numerose grotte, alcune delle quali di notevole interesse, come la grotta del Poggio e quella della Cala, frequentate almeno fino all’Età del Bronzo, o la grotta Sepolcrale, dove sono stati trovati i resti del cosiddetto Homo camerotensis, del tipo di Neanderthal ma col mento sporgente.
Anche l’area degli Alburni è frequentata dai cacciatori del Paleolitico, come dimostra l’ampia antropizzazione delle grotte, in particolare, a S. Angelo a Fasanella, la grotta dove oggi si trova il santuario di S. Michele e la grotta di Castelcivita, entrambe abitate per un periodo non limitato al solo Paleolitico. La natura carsica di quel massiccio e la conseguente presenza di numerose cavità rendeva interessante la zona all’uomo preistorico, che poteva utilizzare per la caccia e le sue necessità le foreste che si estendevano rigogliose fin nella pianura del Sele e il cui raggio d’azione avrà, probabilmente, interessato anche il versante del massiccio che guarda il Vallo di Diano.
Gran parte delle grotte citate sono frequentate anche dall’Homo sapiens, nelle fasi successive del Paleolitico e del Neolitico (quindi almeno fino al 3.000 a.C.); alcune di esse anche nelle età dei metalli. A questi periodi fanno riferimento i ritrovamenti nelle grotte della Cala e Calanca, del Poggio, dell’Olio e del Noglio, poste sempre sulla costa a sud di Palinuro, oltre che nella grotta dell’Ausino, subito sottostante a quella di Castelcivita, con ritrovamenti anche di materiale ceramico, chiara attestazione di frequentazione in epoche successive.
L’utilizzo delle grotte si protrae anche nel periodo storico e in secoli a noi più vicini. Esse interessano, in particolare, il primo monachesimo nella tarda antichità e nell’alto medioevo e il culto dell’arcangelo Michele diffuso in zona soprattutto dai Longobardi.
Questi ultimi veneravano l’arcangelo guerriero perché richiamava il loro antico dio Wotan (Odino) e per la vicinanza del suo culto a quelli uranici e ctoni (cioè riferiti agli dei del cielo e degli inferi). Ne fecero così una sorta di santo nazionale e, nei territori dove si insediarono, gli dedicarono numerose chiese e cappelle disseminate sulle alture e sulle cime dei monti o poste in cavità rupestri e presso sorgenti. Il Cilento – terra di insediamento dei Longobardi – presenta molti di questi siti, spesso grotte adibite a chiese o costruzioni esterne sottoroccia, abitate da eremiti dediti all’ascesi o da monaci viventi l’esperienza cenobitica.
Nell’area del Vallo di Diano troviamo, nei pressi di Sala Consilina, il Santuario e la Grotta di S. Michele Arcangelo, consistenti, l’uno, in una chiesa posta sulle pendici del monte Schiavo, decorata e con una statua del Santo, l’altra, in una spelonca di cui parla già Costantino Gatta nel suo La Lucania illustrata del 1723. Vestigia oggi ridotte in ruderi. Più a sud, incontriamo l’Eremo di S. Michele presso Montesano sulla Marcellana, di cui rimangono solo pochi ruderi all’interno di due grotte collegate da un cunicolo, e il S. Michele alle Grottelle ad est di Padula, anch’esso insediamento religioso all’interno di un’articolata cavità rocciosa, dove sono ancora visibili cicli di affreschi di buona fattura.
Nell’area degli Alburni sorge l’importante insediamento rupestre di S. Angelo a Fasanella. Si tratta di un complesso composto da una grande grotta – quella che abbiamo visto frequentata sin da epoche preistoriche – dedicata a S. Michele Arcangelo, con numerose edicole ed altari e molte pregevoli opere d’arte, e da un’abbazia addossata alla cavità carsica ridotta in ruderi e di cui resta il campanile a pianta quadrata. L’abbazia benedettina ebbe molta importanza, estese la sua influenza su ampie parti della Valle di Fasanella, possedendo nel XII secolo molte dipendenze e privilegi (ne scrive Luigi Kalby in un interessante volume del 1991).
Nel Basso Cilento due i siti dove si riscontra il culto dell’Arcangelo. Nei pressi di Caselle in Pittari, sull’omonimo monte, un complesso formato da due piccole chiese occupanti i due antri naturali che si aprono nella roccia costituisce una rinomata meta di pellegrinaggi. Anche in questo caso ne parlava già Costantino Gatta nel Settecento, riferendo di una nota tradizione secondo la quale nel luogo sarebbe apparso l’Arcangelo. Delle due grotte, una è chiamata dell’Angelo, l’altra, di S. Michele. In quest’ultima, la figura dell’arcangelo è scolpita a bassorilievo su una lastra in pietra risalente probabilmente al XII secolo. Una grotta di S. Michele si trova anche nell’alta valle del Calore, nei pressi di Valle dell’Angelo, ospita una cappella di piccole dimensioni con una statua (è detta anche grotta dell’Ausino, la stessa abitata nei tempi preistorici).
Di queste ultime tre vestigia del culto micaelico cilentano, ancora presente e suggestivo, offriamo alcune immagini fotografiche. Lo stesso culto, peraltro, è assai diffuso nel territorio, costituendo tuttora un riferimento centrale della religiosità locale popolare che ne vive intensamente il significato di lotta vittoriosa del bene sul male, come accade l’8 maggio a Rutino con la Sacra Rappresentazione, detta anche “Volo dell’Angelo”, in cui si inscena il duello tra l’angelo e il diavolo, con dialoghi tratti dal Paradiso perduto di Milton (al riguardo, c’è un bel saggio in un libro di Pasquale Martucci e Antonio Di Rienzo di qualche anno fa).
Per quanto riguarda il monachesimo altomedievale, questo interessò sia alcune grotte dedicate all’Arcangelo sia altri anfratti, cavità e ripari adottati dai monaci nella loro prima fase insediativa nel Cilento, quella eremitica.
Per secoli, monaci provenienti dall’Impero bizantino o culturalmente tali, originari della Sicilia e della Calabria, spesso in fuga dalle lotte iconoclastiche che a lungo imperversarono in Oriente o dinanzi agli Arabi conquistatori dell’isola siciliana, percorsero il futuro Cilento, vi sostarono, vi si insediarono, portandovi i loro culti, la loro spiritualità, i loro modelli di vita materiale. Alcuni di essi divennero famosi in ambito locale e non solo, venendo considerati santi: ricordiamo San Nilo da Rossano, San Saba, San Fantino e San Filadelfo della Badia di Pattano.
Questo fenomeno venne chiamato da studiosi come Ebner, Borsari, Cappelli, Guillou e tanti altri, “bizantinizzazione” del territorio. La dinamica presenza dei monaci italo-greci (spesso chiamati, in modo sintetico ma impreciso, “basiliani”) creò nel Cilento politicamente longobardo una lunga permanenza della cultura orientale, soprattutto religiosa.
La fase cenobitica di questo monachesimo fu quella che diede i maggiori frutti in termini di cultura materiale e trasformazione del territorio, ma furono le più primitive fasi eremitica e lauritica quelle che maggiormente interessano il nostro discorso sulla geomorfologia cilentana. I primi monaci erano anacoreti, vivevano da soli, o in piccoli gruppi, e cercavano la tranquillità, il silenzio, l’isolamento necessari per condurre la loro vita ascetica. Tutte condizioni che trovarono nel Cilento altomedievale, rimasto sostanzialmente immutato, per ciò che riguarda la presenza umana, rispetto alla fase preistorica. Per questo, molte delle grotte, degli anfratti e dei siti sottoroccia locali in cui ancora persistono tracce cultuali, o ancora adibiti a chiese, sono antichi siti eremitici.
Sono ascrivibili a queste origini le chiese rupestri di S. Mauro Martire a Capizzo, di S. Lucia a Magliano Vetere, quella di S. Biagio a Camerota, di S. Elia a Controne e a Postiglione. La grotta di S. Elena a Laurino è, invece, più direttamente collegabile all’omonima santa eremita locale del V-VI secolo (Heliena).
Col passare dei secoli, quei siti sono stati trasformati, adattati ad esigenze e a culti contingenti, legati a memorie particolari, come apparizioni o presenze di santi, spesso miracoli o credenze comunitarie. Data la collocazione di montagna, esprimono la simbologia della salita verso l’alto, verso il cielo, e quella di un cammino che è un pellegrinaggio verso il luogo dove si manifesta il sacro. In alcuni di essi, come quelli di Magliano e Capizzo, la grotta è stata chiusa con la costruzione di una facciata in muratura per proteggere o ampliare il sito e adattarlo alle esigenze di culto. In tutti si è persa la memoria delle origini e, non di rado, anche delle successive trasformazioni, per cui appare difficile, se non impossibile, ricostruirne la storia su basi documentarie, distinguere tra storia e leggenda, entrambe riferite a un passato lontano, arcano e, quindi, sacro.
Di tali siti, presentiamo alcune foto della chiesa di S. Mauro Martire a Capizzo, aggrappata sull’omonima rupe che sovrasta il piccolo paese, e di quella di S. Lucia Vergine e Martire a Magliano Vetere, anch’essa collocata su una roccia poco sopra al paese. In entrambi i casi, gli abitanti vi si recano in processione, rispettivamente, l’11 luglio e la terza domenica di settembre di ogni anno, formando un corteo sacro che trasporta le tradizionali cénte e, a Capizzo, anche la statua del santo venerato in paese. In quest’ultimo caso, si nota il dato peculiare della difformità tra le due statue: quella della chiesa rupestre – considerata inamovibile – rappresenta S. Mauro “fanciullo”, mentre quella portata in corteo rappresenta il martire Mauro. Si tratta probabilmente di due santi diversi, entrambi martiri, che tradizione e storia locale hanno fuso in un unico culto celebrato nella ricorrenza di luglio (l’altro santo è ricordato nel Martirologio Romano il 3 dicembre). Un’incongruenza non avvertita come tale e che, lungi dall’essere una banale imprecisione, costituisce proprio il fascino arcaico e misterioso di questi culti e di questi luoghi.
La cappella di S. Mauro si presenta più strutturata di altre, perché è articolata su tre livelli a uno dei quali è collocata la suggestiva chiesetta incastonata nella roccia. In essa si possono ammirare anche degli antichi affreschi non databili con certezza, ma probabilmente risalenti al XIV-XV secolo. La statua del santo, per la fissità dello sguardo che richiama modelli iconografici orientali, potrebbe essere più antica. Ogni datazione, però, rimane in uno stato di ipotesi, così come quella riguardante la costruzione dell’edificio, sicuramente realizzato in tempi diversi, con ristrutturazioni e rifacimenti successivi.
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Il Cilento, dunque, è attraversato da una rete – quella dei santuari rupestri – che ne copre il territorio e si presenta nella sua pregnanza storico-culturale, potenziale richiamo di un turismo non banale né frettoloso. Essa si configura come un vero e proprio percorso nella spiritualità e nell’ascesi, un viaggio dal fascino arcaico nei luoghi dell’anima, una proposta di immersione nell’umiltà e nella semplicità, oltre che occasione per vivere la suggestione senza tempo di un paesaggio incantato, per capire la storia e sentire la natura in una simbiosi qui al suo culmine.
Camminare nel Cilento non è mai solo trekking, ma è sempre un andare verso l’antico, il sacro, il magico. In sostanza, verso il sé più profondo.