Il prossimo 24 giugno, a tre settimane esatte dalla sua ordinazione, il vescovo Vincenzo Calvosa entrerà ufficialmente nella diocesi di Vallo della Lucania. L’ingresso in diocesi è l’atto solenne col quale il neopastore prende possesso della sua Cattedra, nel senso simbolico di divenire il nuovo “maestro nella fede” dei credenti di questa parte del “popolo di Dio” e di inserirsi nella successione dei vescovi che l’hanno guidata (sarà il tredicesimo dal 1851), ma anche in quello concreto di sedersi effettivamente su quello scranno di marmo posto sulla parete di fondo dell’abside della cattedrale (l’unico a poterlo fare legittimamente in ambito liturgico).
Riflettendo sul giorno scelto, sono incappato in una coincidenza riguardante lo stesso evento di qualche tempo fa. Il 24 giugno del 1956 entrava a Vallo come vescovo mons. Biagio D’Agostino, proveniente dalla diocesi di Gallipoli, della quale era stato ordinario per soli due anni. Forse, c’è ancora qualcuno che può ricordarlo. Coincidenza singolare e niente più, ma significativa per i nostri viaggi nel tempo che la storia ci consente.
L’arrivo di un nuovo vescovo è un evento per ogni diocesi, il cui rilievo non è solo religioso. In una piccola e non centrale diocesi come la nostra – benché antica e ricca di storia, in quanto erede di quella di Capaccio, a sua volta derivata da quella di Paestum – esso scandisce in maniera assai significativa le vicende locali, assumendo un valore che non si esagera a definire periodizzante.
Scavando tra carte antiche e foto ingiallite, alla ricerca di dati significativi al riguardo, sono riuscito a percorrere all’indietro quasi l’intero Novecento.
Sappiamo che mons. Paolo Iacuzio entrò in diocesi il 21 luglio del 1901 (era stato ordinato il 21 dicembre dell’anno prima). Con lui inizia il nuovo secolo in ambito pastorale e sociale. Ancora a luglio, ma il 25 e nell’anno 1918, fece il suo ingresso il successore mons. Francesco Cammarota, il secondo vescovo a morire in diocesi durante il suo ministero (il primo era stato mons. Siciliani, nel 1876). La sua morte, a dicembre del 1935, lasciò un vero vuoto: era stato un realizzatore, riuscendo ad erigere il monumentale seminario ancora oggi esistente nell’omonima strada di Vallo (intitolatagli nel 1950, lo stesso anno in cui la sua salma venne trasferita in cattedrale), ed aveva per dieci anni amministrato anche la confinante diocesi di Policastro.
Due episcopati della stessa lunghezza aprono il secolo, ma con caratteristiche abbastanza differenti. L’uno, il primo, più sociale (e ben sintetizzato dal motto adottato: Fide et Operibus), tutto teso nel dare identità e nuova consapevolezza ai cattolici al fine di consentire loro di affrontare quel mondo anticlericale, e largamente massonico, dei notabili liberali che allora governavano il Paese (e anche il paese, cioè Vallo); l’altro, più pastorale e rivolto a recuperare in termini materiali e di fede quanto perduto in conseguenza della guerra mondiale, con al suo centro quell’impegno alla “restaurazione cristiana della società” voluto da Pio XI che favorì, tra equivoci e contrasti, un’ampia apertura, se non un certo cedimento, alle politiche del regime fascista.
Scomparso Cammarota, ci vogliono ben dieci mesi per l’arrivo del nuovo vescovo, che è il piemontese Raffaele De Giuli, entrato in diocesi il 24 ottobre del 1936. Era stato ordinato il precedente 30 agosto a Domodossola, dove era parroco e dove, per l’occasione, si recò gran parte del capitolo cattedrale, tra cui il futuro vescovo e allora teologo di quel capitolo, don Enrico Nicodemo. Questi ne aveva salutato la nomina usando, sul Bollettino diocesano, parole bibliche: “Benedictus qui venit in nomine Domini – Benedetto colui che viene nel nome del Signore”; e, descrivendo l’ordinazione, ne aveva già individuate le qualità: quando “nella maestà degli abiti pontificali, Egli ha attraversato la Chiesa [di Domodossola], impartendo la prima benedizione, a noi è sembrato di cogliere, nel gesto largo e sicuro, nel volto paternamente sorridente, tutta una somma di radiose promesse”.
I dieci anni di De Giuli alla guida della diocesi di Capaccio-Vallo sono anni di apostolato, di missioni al popolo, di incentivazione del laicato cattolico. Un periodo necessariamente caratterizzato dalla guerra che arriva in diocesi, con tutta la sua violenza, soprattutto nell’estate del ’43. Gli anni seguenti mettono in mostra tutta la fattiva carità del presule verso le drammatiche conseguenze del conflitto sul territorio diocesano, sia materiali che spirituali.
Trasferito ad Albenga, mons. De Giuli lascia la diocesi – che intanto ha cambiato nome, assumendo quello attuale “di Vallo della Lucania” – a giugno del ’46. Vallo dovrà aspettare quasi un anno per vedere entrare il suo nuovo Pastore, mons. Domenico Savarese, il cui solenne ingresso porta la data del 14 maggio 1947.
Nonostante le ferite del conflitto, tutte ancora aperte, anche quel giorno riesce ad essere un momento di festa e l’ex rettore del seminario di Aversa entra in diocesi “rifulgente nella maestà dei sacri paludamenti”, come fa scrivere l’allora arcidiacono del capitolo, mons. Alfredo Pinto, nel manifesto che annuncia l’evento, usando il linguaggio tipico della Chiesa trionfante.
Un episcopato breve ma intenso, il suo. Già a metà del successivo decennio è costretto a dare l’addio alla diocesi: muore, infatti, agli inizi di ottobre del ’55 (e viene tumulato in cattedrale). In poco più di otto anni, però, il napoletano don Domenico, forte della sua giovane età e di un temperamento assai autorevole (a tratti autoritario), completa il seminario inaugurando la cappella e incrementandone i frequentanti, celebra il primo centenario dell’istituzione della diocesi, istituisce tra le altre la seconda parrocchia di Vallo – quella di S. Maria delle Grazie –, incentiva fortemente l’Azione Cattolica e ne orienta l’attività verso il sostegno della DC, promuovendo la rinascita sociale e politica dei cattolici in funzione anticomunista. Il suo è un impegno anche a favore della rinascita del territorio e per la ricostruzione post-guerra, adoperandosi per la realizzazione di strade, l’organizzazione dell’acquedotto dei comuni cilentani, l’apertura di cantieri di lavoro a sollievo della disoccupazione.
Nel giorno di San Giovanni Battista del ’56 – come si è detto – tocca al molisano mons. D’Agostino entrare nella sua nuova diocesi; e lo fa – come si legge nel manifesto – indossando i paramenti pontificali nella cappella di S. Antonio, all’inizio di via Cammarota (all’epoca, evidentemente, ancora in piedi), da dove si snoda poi il corteo fino alla cattedrale. È il primo dei nostri vescovi novecenteschi ad essere già investito della “pienezza del sacerdozio”, dunque non c’è bisogno di ordinarlo perché il suo è un semplice trasferimento dalla Puglia al Cilento (singolare il nostro rapporto con questa regione, se si pensa che in questi anni l’arcivescovo di Bari è il cilentano mons. Enrico Nicodemo, che il successore di D’Agostino sarà quel mons. Casale originario di Trani, che – per arrivare alla cronaca dei nostri giorni – l’uscente mons. Miniero sarà, a breve, sulla cattedra di San Cataldo a Taranto).
I diciotto anni del suo episcopato, senza dubbio, sono caratterizzati dall’evento centrale del Vaticano II, che segna il più grande sforzo di rinnovamento della Chiesa cattolica non solo del Novecento. Mons. D’Agostino è chiamato al compito di traghettare la Chiesa locale da Pio XII a Giovanni XXIII e, ancor più, a Paolo VI. Di farlo senza traumi e rotture, ma all’interno di una continuità che sappia aprire al nuovo pur non chiudendo alla sostanza della tradizione (che per il cattolicesimo è “la Tradizione”).
Don Biagio partecipa attivamente alle sessioni conciliari, ne informa la diocesi, ci tiene a spiegare le decisioni prese, le discussioni sostenute, a mettere in evidenza la grandezza della Chiesa che si mostra in tutta la sua vastità e articolazione in quell’assise. Ma gli anni più difficili sono quelli in cui ne avvia l’applicazione in diocesi, tra oggettive difficoltà di interpretazione, tentativi di fughe in avanti, desiderio di alcuni di cambiare tutto. Molte cose saranno fatte o avviate – i consigli presbiterale e pastorale, i vari consigli parrocchiali, la riforma liturgica e l’adeguamento del presbiterio delle chiese –, tante altre resteranno sulla carta o come auspicio. Mons. D’Agostino è anche impegnato a combattere la mondanizzazione dei costumi, la laicizzazione della morale, il generale allontanamento dalla Chiesa favorito dal benessere, col suo materialismo e l’apertura verso modelli di vita consumistici.
Ma questi temi, legati alla modernità e al cambiamento di una Chiesa conciliare, sono al centro, soprattutto, dell’episcopato di mons. Giuseppe Casale che gli succede sulla cattedra di San Pantaleone l’8 dicembre del 1974, in seguito alle sue dimissioni per raggiunti limiti di età. Quel giorno, per la prima volta, un vescovo di Vallo viene ordinato nella stessa cattedrale da cui guiderà il suo popolo. A ordinarlo, il cardinale Sebastiano Baggio.
Nel primo saluto alla diocesi, scrive: “Ho voluto diventare vescovo in mezzo a voi per vivere insieme con voi questo momento di pienezza dello Spirito Santo che arricchirà tutta la vita della comunità diocesana”. Dunque, una scelta consapevole che apre un episcopato all’insegna della condivisione. Casale non entra in diocesi, perché vi diventa Pastore dall’interno, nel suo centro dove prende possesso della cattedra in quel giorno dedicato all’Immacolata Concezione.
Il neovescovo nella sua attività terrà fede alle precedenti esperienze, soprattutto romane, di vice assistente nazionale della Gioventù di Azione Cattolica (la celebre GIAC) e di membro del Consiglio dell’Ufficio catechistico nazionale, dedicando particolare attenzione alle pastorali giovanile, catechistica e del lavoro. Al centro, porrà sempre il rapporto con i giovani, la loro fede e la loro formazione umana, professionale e sociale.
L’apertura alla società, al laicato, a quel “popolo di Dio”, chiaramente assunto come parte integrante della Chiesa dai documenti conciliari, sono le caratteristiche del suo quindicennio di episcopato. La nascita del Centro Incontro e Dialogo, già predisposto dal predecessore ma da lui indirizzato verso quel mondo giovanile in agitazione e alla ricerca di ascolto; l’apertura di Radio Cilento Nuovo, proprio negli anni delle cosiddette “radio libere”, per avere una voce cattolica ma non clericale nell’etere, affidata a giovani che responsabilizzino i coetanei; il rinnovamento del bollettino diocesano trasformato in “Comunità in dialogo”, affiancato da altre iniziative di tipo più propriamente giornalistico; l’attivazione della libreria “Fede e cultura”, anche qui per far dire la loro ai cattolici in un mondo, quello della cultura, che spesso sfugge ai temi e alla spiritualità cristiane; l’incentivazione dell’Azione Cattolica, col suo impegno religioso ma aperto al sociale, capace di coinvolgere in maniera capillare nelle parrocchie i ragazzi e i giovani; l’apertura verso altri movimenti che animavano il laicato negli anni del post-Concilio, come Comunione e Liberazione; la riorganizzazione della biblioteca e dell’archivio diocesani; l’ampliamento e la sistemazione del museo diocesano in un ala del seminario; l’apertura ad Agropoli dell’Istituto di Scienze Religiose, volto a formare insegnanti preparati ma anche laici responsabili e consapevoli della propria fede.
Sono solo alcune delle attività, delle iniziative, delle riforme caratterizzanti l’episcopato di Casale, al quale non mancano difficoltà, contrasti, incomprensioni. Il suo impegno è ricompensato a maggio del 1988 con la nomina ad arcivescovo di Foggia, ma prima di tornare definitivamente nella sua Puglia sarebbero passati molti mesi durante i quali avrebbe svolto l’ufficio di amministratore apostolico della diocesi. Infatti, il successore, mons. Giuseppe Rocco Favale, viene nominato solo a marzo del 1989, per entrare in diocesi il successivo 27 maggio dopo essere stato ordinato nella sua Irsina (in provincia di Matera) il 1° dello stesso mese.
L’ordinazione è presieduta dal card. Michele Giordano, arcivescovo di Napoli, di cui don Rocco era stato segretario ai tempi in cui il primo era vescovo a Matera. L’entrata in diocesi rivela subito il tratto profondamente umano del carattere del neovescovo, affabile e spontaneo, forse anche troppo franco ma capace di grande empatia col popolo dei fedeli. Il suo motto, In omnibus caritas, diventa la ragione della sua azione pastorale, come disse lui stesso nell’omelia durante la celebrazione di quel 27 maggio.
Nel suo lunghissimo episcopato, durato ben 22 anni (il più lungo tra quelli di cui stiamo parlando, ma anche rispetto a quelli della seconda metà dell’Ottocento), mons. Favale si rivela un realizzatore provvedendo a ristrutturare il seminario e l’episcopio, a costruire il Centro Maria SS.ma della Provvidenza con le case canoniche per il clero, a erigere e restaurare numerose chiese nelle oltre cento parrocchie della diocesi. A maggio del 2010 inaugura l’immagine, da lui voluta e fatta realizzare, della “Madonna del Cilento”, collocata a Ponte Barizzo, all’entrata da nord della diocesi. Ma è costretto anche ad affrontare i numerosi problemi della Chiesa a cavallo tra i due millenni: la crisi delle vocazioni con la conseguente scarsità di sacerdoti, lo spopolamento delle comunità locali, la difficoltà di gestione delle strutture educative ecclesiastiche, l’avanzare di una laicità diventata, anche nella società locale, laicismo.
Giunto ai 75 anni, anche Favale rassegna canonicamente le dimissioni, a sostituirlo – nel 2011 – è chiamato il sacerdote napoletano Ciro Miniero, ordinato a Napoli dal cardinale Crescenzio Sepe ed entrato in diocesi agli inizi di settembre dello stesso anno. Il suo episcopato è cronaca recente e lo è ancora di più la sua promozione ad arcivescovo coadiutore di Taranto, annunciata lo scorso ottobre e concretamente realizzatasi in questo mese di giugno col suo definitivo trasferimento nella città pugliese, dopo molti mesi in cui ha retto la diocesi come amministratore apostolico.
Mentre gli auguriamo una felice, e lunga, attività pastorale nella città ionica, ci poniamo in attesa del suo successore, mons. Vincenzo Calvosa, ordinato vescovo lo scorso 3 giugno nell’Anfiteatro Polivalente di Villapiana Scalo nel cosentino e in entrata a Vallo – come si è detto – il prossimo 24, quando assisteremo alla nuova, antica e suggestiva cerimonia della presa di possesso della Cattedra da parte del tredicesimo pastore diocesano.
Al prossimo 24 giugno!
Ottimo, more solito