Scurati e il suo “Figlio del secolo”: romanzo o storia?

Più che un romanzo, questo sembra un documentario, potremmo quasi assimilarlo a uno di quei docu-film oggi tanto di moda. L’autore usa l’espressione ibrida “romanzo documentario”, dove il secondo termine indica che nulla di quanto scritto è inventato. Veri i personaggi, gli eventi, i discorsi, i dialoghi, cioè tutti documentati storicamente o riferiti da testimoni credibili. Ma allora – ci si può chiedere – cosa è romanzo in ciò che leggiamo, cosa è fantasia, astrazione dal reale, pura invenzione? Cosa giustifica l’uso del primo termine e in cosa differisce la costruzione romanzesca dalla ricostruzione storiografica?

Scurati afferma abilmente che “la storia è un’invenzione cui la realtà arreca i propri materiali”; invenzione sì, ma non arbitraria – si premura di aggiungere. E su questo, ma con una certa cautela, gli si potrebbe anche dar ragione. In fondo, la storia (meglio, la storiografia) è il desiderio dell’uomo di raccontare il proprio passato per dargli un senso, e per darne anche al suo presente. La cautela di cui si diceva sta tutta nell’uso di quei materiali. Se lo storico “inventa”, deve tenere a freno la sua fantasia; il suo freno sono i documenti, che gli impediscono di illuminare tutto, di guardare dovunque vorrebbe, di conoscere tutte le cause e tutte le conseguenze, condizionandone il punto di vista e obbligandolo a seguire un percorso ad ostacoli. Le sue fonti costituiscono la sua bussola, il discrimine tra ciò che può dire e ciò che non può dire, a volte neanche ipotizzare; discrimine legato alla quantità e qualità dei documenti, ma mai del tutto eliminabile. Il romanziere non ha questo limite, anzi; per lui la fantasia è tutto, non deve frenarla ma dispiegarla al massimo anche quando usa materiali presi in prestito dalla realtà storica. Può utilizzare i documenti ma senza rimanerne impigliato, piegandoli magari al suo obiettivo artistico e comunque interpretandoli secondo criteri tutti suoi che rispondono ai propri gusti estetici. Insomma, lo scrittore è onnisciente, è il signore del suo mondo, ne crea gli ambienti e i personaggi, fa muovere questi ultimi a suo piacimento. Ha un solo obbligo: la coerenza con le regole che ha stabilito per il suo mondo, cioè il rispetto dei suoi lettori.

Detto questo, e lungi dal voler elaborare una teoria della letteratura o, peggio, una teoria della storiografia, quella di Scurati è storia o romanzo? Se pretende di essere entrambe le cose, riesce a mantenersi nell’equilibrio richiesto dalla sua natura ibrida di “romanzo documentario”?

Non daremo una risposta ma solo un parere molto personale, confessando che il libro si legge come un romanzo ed è documentato come un testo di storia. Facile alla lettura, deve esserne stata tutt’altro che facile la scrittura. Vi si nota uno sforzo documentario non indifferente, che si trasferisce sulla pagina senza appesantirne la lettura, nonostante si tratti di un “mattone” che supera le ottocento pagine. Qui conta la raffinata capacità letteraria dell’autore che tiene desta l’attenzione e leggero il suo periodare. Scurati non scrive un romanzo storico dove, cioè, contesto e personaggi sono in gran parte reali ma la trama è di fantasia. Infatti, usa intervallare il suo testo con brani tratti da giornali d’epoca, diari dei protagonisti, lettere, rapporti di funzionari, documenti ufficiali (dunque, a rigore non è neanche un romanzo e basta). Forse, la sua è più vicina a una storia romanzata dove, cioè, l’invenzione si colloca in vari punti dello svolgimento dei fatti, senza alterarli ma – come si può dire – arrotondandoli, aggiungendo o sottraendo particolari, lavorando di cesello, aggiustando dialoghi, inserendo aspetti sentimentali ed elementi emotivi. Ma forse anche questa definizione starebbe stretta all’autore, il quale ribadirebbe che non ha inventato nulla, che è tutto vero, rimandando piuttosto alla complessità dei fatti che racconta, molti dei quali più incredibili di qualunque romanzo (dunque, è verità storica ma non un libro di storia). Possiamo dire, allora, che la sua invenzione è tutta nello stile, nella messa in scena, nella scelta di cosa illuminare con la sua poderosa scrittura. Di sicuro, non inventa i personaggi, ma tende a rappresentarne i sentimenti, la loro umanità spesso oscura e manipolatoria, gli ambienti in cui agiscono, le prospettive politiche intrise di motivazioni personali. Insomma, la sua è una drammatizzazione che rende romanzesca la materia trattata, non nel senso di alterarla o inventarla ma in quello di puntare molto sugli aspetti emotivi, soggettivi, poco ordinari e più accattivanti. In questo, a dir la verità, lo aiutano i fatti che in larga misura sembrano usciti da un romanzo o comunque offrire una materia “romanzabile” al massimo. Il gioco realtà/finzione appare assai sfumato e quasi indistinguibile in un contesto come quello del primo dopoguerra, in cui si muovono personaggi tutti un po’ sopra le righe, come D’Annunzio, i ras fascisti, i leader socialisti, e soprattutto lui, Mussolini.

Quella di Scurati è, in primo luogo, una sorta di biografia del “duce”, o di “M” il “figlio del secolo”, come è chiamato nel titolo di questo che è solo il primo dei tre tomi annunciati (divenuti, a quanto pare, quattro). Una biografia che è anche, necessariamente, quella del fascismo, di un intero mondo, di una realtà ampia e che si amplia col crescere del suo potere. E quando si parla di Mussolini siamo già dentro a un romanzo, drammaticamente vero. L’autore assume il suo punto di vista, mostra il cinismo e l’opportunismo dell’uomo, le contraddizioni che lo caratterizzano ma anche la capacità di muoversi nella complessa realtà politica del dopoguerra; indugia sulla sua sregolatezza sentimentale e sulla prepotenza sessuale, soffermandosi sul rapporto con Ida Dalser, Bianca Ceccato, e soprattutto Margherita Sarfatti, le “sue” donne di questo periodo, mentre la moglie Rachele rimane sullo sfondo; alterna la scena pubblica del politico con quella privata dell’uomo. Forse, quest’ultima è la parte più “romanzata”, o quella che consente meglio di lavorare di fantasia, pur non mancando di una sua veridicità.

Scurati, nella sua libertà di romanziere, sceglie cosa guardare di questo periodo non lungo ma assai ricco che costituisce la materia del primo volume; la sua prospettiva è abbastanza ampia da offrire un’immagine corale di fatti ed eventi, pur non riuscendo mai a superare del tutto quel senso di scarsa omogeneità del racconto, quasi di sfilacciamento del suo procedere. I suoi appaiono essere come tanti bozzetti d’ambiente, godibili, spesso pregevoli e non di rado illuminanti; l’ambiente che dipingono è intinto nella storia, ma resta quel senso di poca unità, soprattutto se lo si considera un romanzo.

La scena si apre con la riunione milanese del 23 marzo 1919, quando vengono fondati i Fasci di combattimento, e si chiude col celebre discorso del 3 gennaio 1925, quando il Mussolini capo del governo si assume tutta la responsabilità politica e morale dell’omicidio Matteotti. In mezzo, sei anni turbolenti in cui si passa dal clima di guerra civile del primissimo dopoguerra all’avvio della normalizzazione che condurrà al regime fascista. Periodo scandito anno per anno, quasi mese per mese, con un procedere che non è una mera cronaca, né un elenco di date, ma un racconto che si sofferma di volta in volta su persone, su eventi, su luoghi diversi. Sono quasi delle foto, o meglio, dei piccoli filmati che danno, come si diceva, quel senso di coralità nella visione e di scarsa unitarietà di quello che vorrebbe essere anche un romanzo.

L’autore è abile nel portarci dentro ai vari ambienti in cui si immerge e in cui prendono vita personaggi come Amerigo Dùmini, Albino Volpi, Cesare Rossi, Michele Bianchi, Umberto Pasella, e tanti altri di quel microcosmo costituito dai primi collaboratori del Mussolini fascista; allarga il suo sguardo anche sugli oppositori come il comunista Nicola Bombacci e il socialista Giacomo Matteotti, del quale mostra il coraggio di denunciare tra i primi le violenze fasciste già a gennaio del ‘21 ma anche il dramma di essere sempre più solo in questo ruolo fino ai tragici fatti del giugno ’24. Molto belle le pagine in cui mostra il delicato rapporto del deputato socialista con la moglie Velia attraverso le lettere che i due si scambiano, nelle quali politico e personale, pubblico e privato sono tutt’uno e in cui Scurati mostra la capacità di trattare la materia storica con gli occhi del romanziere senza perdere in verità e significato.

Ma non meno abile è la sua capacità di presentare il clima generale di quel dopoguerra, a Milano, a Roma, nella Pianura padana, con l’irrequietezza dei reduci incompresi nel loro desiderio di protagonismo e di rivalsa, l’effervescenza degli operai convinti che la guerra sia stata solo una speculazione sulla loro pelle e il risentimento piccolo-borghese dei tanti ufficiali che hanno partecipato alla guerra e ora si sentono traditi dalla loro patria. È soprattutto nella Milano del Mussolini direttore de Il Popolo d’Italia che sono presenti tutte le tensioni, con scontri, scioperi, serrate, contrapposizioni anche violente tra ex combattenti, socialisti, fascisti, ed è qui, come in molte delle grandi città del Nord, che aleggia il fantasma della rivoluzione bolscevica, tra chi la invoca e chi la teme.

– Gabriele D’Annunzio e Fiume

Protagonista di questa fase è D’Annunzio col suo mito della “vittoria mutilata” e la controversa avventura fiumana. Scurati coglie bene lo strano rapporto di fascinazione e reciproca ostilità tra il Vate e Mussolini e coglie benissimo l’atmosfera che si respira a Fiume, occupata dal settembre 1919, illustrandola con un vero pezzo di bravura:

L’intera città appare in orgasmo. Il clima umano è da orgia a cielo aperto. La libidine sfrenata del seduttore la pervade. Soldati, marinai, donne, cittadini turbinano, variamente allacciati, sul ritmo di fanfare militari. A ogni angolo, gruppi di Arditi giurano commossi su pugnali sguainati, le ragazze sfilano inghirlandate come statue votive oppure acconciate alla maschietta in uniformi prestate, i muri sono costellati da scritte che dichiarano ‘me ne frego!’. Anche la tenuta marziale è dissipata. I fanti si aggirano con la giubba spaccata, il colletto aperto, il collo nudo. […] Tutto è bizzarro, inusuale, eccitante. Ma c’è qualcosa di sinistro in questa festa. La gioventù del secolo, dopo esser scampata per quattro anni alla morte nelle trincee di tutta Europa, piuttosto che tornare al risparmio, alla famiglia, alla religione, agli avi, alle virtù, ai giorni, sembra essere scivolata a Fiume, in preda a una sbornia, per farla finita con questa stupenda, inutile vita”.

E ancora:

D’altra parte, in poco più di un mese, Fiume è già diventata un mondo di mondi, il porto franco del ribellismo di tutte le sponde politiche, nazionalisti e internazionalisti, monarchici e repubblicani, conservatori e sindacalisti, clericali e anarchici, imperialisti e comunisti. Le avanguardie politiche, sociali e artistiche di tutta Europa stanno accorrendo alla fiera delle meraviglie: sognatori, libertari, idealisti, rivoluzionari, anticonformisti, avventurieri, una folla di eroi e spostati, talenti inquieti ed eccentrici, uomini d’azione e asceti, disperati senza niente da perdere e milionari in cerca di emozioni, giovani violenti e scrittori alla moda di Parigi, artisti vegetariani e preti riformati, amazzoni in divisa militare e militari agghindati come ballerine, seduttori in cerca di conquiste femminili e pederasti in cerca di conquiste maschili. L’amalgama è entusiastica, il baccanale orgiastico, la licenza normale, la sfrenatezza assoluta, lo spettacolo continuo, la festa ininterrotta. L’individualismo, la pirateria, l’eccentricità, la trasgressione, la droga, la libertà sessuale, il cosmopolitismo, il femminismo, l’omosessualità, l’anarchismo pongono Fiume fuori dal mondo e, contemporaneamente, sopra di esso”.

Mussolini appoggia D’Annunzio ma non completamente, solo fino a quando può strumentalizzarne l’avventurismo. In definitiva, scrive il Nostro, “D’Annunzio era un poeta e la principale delusione che la realtà ci riserva consiste nel non assomigliare mai a un poema. A lui, al figlio del fabbro di Predappio, la realtà, invece, piaceva. Quella bassa, ferrigna, brutale, quella irriducibile. Non conosceva altro piacere al di fuori di quella”.

– Squadrismo e ras provinciali

Interessante è anche la ricostruzione dei fatti del ’20-21, con la svolta a destra dei fasci, che dal confuso rivoluzionarismo sinistrorso di San Sepolcro cominciano a guardare a industriali, borghesia e Vaticano. La vera svolta avviene tra l’estate e l’autunno del 1920, quando per l’inasprirsi dello scontro tra leghe socialiste e agrari, nasce lo squadrismo, cioè il fascismo agrario delle regioni padane. Sono, in particolare, l’occupazione delle fabbriche del settembre di quell’anno, le elezioni amministrative del mese successivo che segnano la vittoria socialista in molte province, soprattutto in quelle “rosse” di Ferrara e Bologna, e i fatti di Palazzo D’Accursio di novembre, a fare da fiamma incendiaria. Scurati fa un’avvincente cronaca di quest’ultimo evento quando, durante la cerimonia per l’insediamento della nuova Giunta comunale socialista di Bologna, la tensione esplode ed è una strage con 10 morti e 50 feriti. Le responsabilità dell’eccidio si rimpallano, ma è il momento più alto in cui l’odio dei proprietari verso i contadini e le loro leghe, la paura o l’attesa della rivoluzione provocano l’inizio della reazione:

L’escalation si è scatenata dopo la strage di Bologna. La progressione è stata esponenziale, la direttrice univoca e lampante, come se a guidarla fosse un istinto della specie. Immediatamente dopo l’eccidio, mentre i cadaveri dei morti e i feriti ancora gremivano la piazza, i fascisti già s’incolonnavano e percorrevano le vie della città cantando i loro inni. All’indomani stesso era cominciata la loro ascesa – migliaia di nuovi tesserati in pochi giorni – e i fascisti non avevano nessuna intenzione di disarmare. […] Le formazioni paramilitari fasciste, sognate a lungo e inutilmente dalla volontà di potenza del Fondatore, ora germogliavano per generazione spontanea dal sangue versato in piazza Maggiore a Bologna”. “Un’ondata di entusiasmo, infatti, e un coro di consensi aveva salutato ovunque le azioni delle squadre fasciste. Il successo era totale, l’urto era stato capovolgitore, l’incantesimo rosso si era spezzato. E non solo a Bologna. La violenza trionfale si propagava lungo tutta la via Emilia con la velocità del contagio […]. L’effetto era a valanga, dall’autodifesa si passava alla controffensiva, il fascismo sbocciava irrefrenabile in ogni provincia d’Italia. Un’aria di battaglia aleggiava nelle campagne”.

Da chi era composto questo nuovo esercito? Da “piccolo-borghesi odiatori”, risponde Scurati sposando la tesi, ormai consolidata, che si trattasse essenzialmente di gente impaurita da un possibile declassamento:

I ceti medi declassati a causa delle speculazioni di guerra del grande capitale, gli ufficialetti che non si rassegnano a perdere un comando per tornare alla mediocrità della vita quotidiana, i travet che più di ogni altra cosa si sentono insultati dalle scarpe nuove della figlia del contadino, i mezzadri che hanno comprato un pezzetto di terra dopo Caporetto e adesso sono pronti a uccidere pur di mantenerla, tutte brave persone prese dal panico, cadute in ansietà. Tutta gente scossa nella propria fibra più intima da un desiderio incontenibile di sottomissione a un uomo forte e, al tempo stesso, di dominio sugli inermi. Sono pronti a baciare le scarpe di qualsiasi nuovo padrone purché venga dato anche a loro qualcuno da calpestare”.

Ma il capo di questo esercito non è Mussolini, che non lo ha creato né può controllarlo. I capi sono i leader locali, che proprio in questo periodo emergono come ras provinciali, territoriali, con la loro violenza e le loro spedizioni punitive spesso su larga scala. Anche qui Scurati è assai efficace nel tratteggiare le vicende di alcuni di questi protagonisti (anche se, forse, appare trattarli troppo come personaggi da romanzo), da Leandro Arpinati, tra i provocatori presenti a Bologna durante l’eccidio di Palazzo D’Accursio, a Italo Balbo, ex mazziniano che diventa tra la fine del ’20 e gli inizi del ’21 il ras di Ferrara e della Romagna, distinguendosi per violenza ed irrequietezza. Da Farinacci, capo intransigente dei fascisti di Cremona, a Dino Grandi, passato dopo i fatti di Bologna dai repubblicani ai fascisti, “testa politica del fascismo bolognese” che “professa una miscela di romanticismo rivoluzionario, di sindacalismo nazionalista e di dannunzianesimo d’accatto. Identifica fascismo e fiumanesimo, predica di voler redimere le masse contadine e intanto prende i soldi dagli agrari”.

Mussolini ne è ben cosciente quando, ad aprile del ’21, è accolto, nella Bologna di Arpinati e Grandi, da 20.000 fascisti: “L’accoglienza trionfale riservata all’ospite è anche un’esibizione di potenza. L’ospite non l’ha generata quella forza, è soltanto venuto a sedurla. […] A Bologna, la grande madre, l’ape regina, lui non è il padre del fascismo, è soltanto il suo fuco”.

Per centinaia di pagine Scurati mette in scena il dramma italiano di questi anni con un movimento, poi partito, armato che è dedito a ogni tipo di violenza e il suo leader che pretende di controllare quella violenza, usandola cinicamente in chiave politica, cioè dosandola secondo le sue convenienze per far crollare il sistema e presentarsi come l’unico risolutore della crisi. In mezzo, lo Stato liberale che si sfascia, con i suoi partiti, compresi popolari e socialisti, incapaci di reagire efficacemente.

La violenza – pensa il Mussolini di Scurati agli inizi del ’21 – deve continuare quel tanto che basta a far capire ai vecchi borghesi imbecilli che non possono fare a meno dei violenti. Ma bisogna anche tenere a bada quei forsennati selvatici che ammazzano per sport nelle campagne della bassa”.

E numerosi sono gli atti di violenza fascista descritti. Basterà citarne uno per tutti, il brutale omicidio del capolega davanti alla famiglia nel suo casolare nelle campagne del Polesine a febbraio ’21, assunto ad esempio di centinaia di gesta del genere da parte degli squadristi.

I tentativi di Mussolini di usare lo squadrismo per i suoi fini riescono solo in parte. Dai “blocchi nazionali” per le elezioni politiche del maggio ’21, che portano i primi fascisti alla Camera e che sono il frutto delle strategie contrapposte di Giolitti e di Mussolini: “Giolitti ha un suo piano: imbrigliare l’illegalità fascista, ritenuta un fenomeno passeggero, impastoiandola nell’arco costituzionale. Mussolini ha un contropiano: suscitare il disordine per dimostrare che l’ordine può ripristinarlo soltanto lui. Scatenare gli squadristi con una mano per poi imbrigliarli con l’altra. […] Gli squadristi, va da sé, non gli reggono il gioco. Sono violentemente antiparlamentari. Sanno di essersi imposti fuori dal Parlamento e oggi se ne infischiano di avere dieci o cinquanta deputati fascisti. Hanno ragione: tutto il fascismo è nato come movimento antiparlamentare. Ma il Duce li rassicura: nulla è cambiato, la marcia continua senza sosta, con la stessa meta. Solo che adesso si andrà in Parlamento predicando contro il Parlamento”; al “patto di pacificazione” dell’estate successiva, l’accordo tra socialisti e fascisti per salvare il fascismo dalle conseguenze della sua stessa violenza all’indomani della formazione del governo Bonomi e della possibile coalizione di tutte le forze moderate in chiave antifascista: “Se non ci si vuole suicidare, – pensa il Mussolini di Scurati – bisogna tornare al principio, bisogna smetterla di fare dello ‘sterminismo’. Altrimenti Bonomi, liquidati i socialisti massimalisti con la violenza dei fascisti, e alleatosi con quelli moderati, gli avrebbe servito presto il calcio dell’asino”. Ma i ras delle province si ribellano e ne provocano il fallimento: “La pacificazione, per gente come Balbo e Grandi, significa la fine certa, rapida, la condanna a un limbo oscuro, senza azione, senza storia perché senza luce e senza luce perché senza storia. E loro sono disposti a dare la vita ma non a regalarla”.

– “Trattare, ingannare, minacciare”

I governi Facta del ’22 segnano il progressivo sfaldamento dello Stato, mentre le azioni dello squadrismo agrario e urbano si fanno di massa. A ottobre, il problema di Mussolini è la presa del potere, ma il dubbio è se con la forza o con l’azione politica, magari con entrambe agendo col cinismo del giocatore d’azzardo. Scurati coglie in pieno il suo gioco politico fatto di molte incertezze e finzioni. La forza serve ma non basta, se l’esercito spara sulle squadre il fascismo crolla in un attimo; allora, bisogna solo minacciarne l’uso, far finta di usarla sperando che il bluff regga il tempo necessario alla vera operazione politica, “fare ‘come se’ […] proclamare mobilitarsi, armare, ammazzarsi anche un poco e poi… poi fingere di marciare marciando davvero. […] si tratta di una finzione che per essere creduta vera richiede un eccesso di realtà”. E così, mentre si organizza la “marcia su Roma”, con la mobilitazione delle squadre, Mussolini tratta con tutti, Salandra, Nitti, Facta, Giolitti: “si scommettono tutte le poste, si confida sui veti incrociati, si rinfocolano gli odi di fazione – il veto di Sturzo a Giolitti, la rivalità tra questi e Nitti – si lusingano le vanità di ciascuno, ciascuno abbocca. In fondo, si promette a ognuno la stessa cosa: la presidenza di un governo di coalizione, l’appoggio dei fascisti redenti in cambio di quattro o cinque ministeri. E a ognuno si rifila la stessa fregatura. L’obiettivo primario, il ‘piano segreto’ di Mussolini, rimane, infatti, il medesimo: temporeggiare, portare la crisi politica a un punto di non ritorno, al punto in cui nessuna soluzione alternativa a un governo fascista sia più possibile, poi, e soltanto allora, spingere Facta alle dimissioni minacciando l’insurrezione e impossessarsi del potere senza colpo ferire. Il terzo tempo della rivoluzione che diventa il primo. Ed è, infatti, tutta questione di tempismo: bisogna scongiurare il ‘troppo presto’, che consentirebbe ancora ad altri di formare un governo d’emergenza escludendo i fascisti, o il ‘troppo tardi’, che smaschererebbe il loro bluff militare. […] C’è solo un uomo in grado di salvare il Paese dal caos della violenza squadrista. È lo stesso uomo che prima deve suscitarla”.

Tre parole servono a Scurati per definire la strategia di quest’operazione mussoliniana: “Trattare, ingannare, minacciare. Trattare con tutti, tradire tutti”.

Mentre racconta come in una sorta di film i vari scenari su cui si svolge la “marcia” (con un magnifico montaggio, che insegue gli eventi e incalza i protagonisti), l’autore così descrive il 28 ottobre degli squadristi in marcia verso i luoghi di raduno attorno alla capitale stabiliti nei giorni precedenti:

I quadrumviri della “marcia su Roma” (da Autobiografia di una nazione, a cura di L. Criscenti e G. D’Autilia, Editori Riuniti, Roma, 2000)

Mentre nelle strade di Roma si affigge il proclama dello stato d’assedio che dovrebbe stroncarla, nelle campagne del Lazio l’insurrezione è già fallita. La divisione per la difesa della capitale, agli ordini del risoluto generale Pugliese, ammonta complessivamente a 28.000 uomini fra soldati, carabinieri, guardie di finanza e guardie regie, che dispongono di 60 mitragliatrici, 26 cannoni, 15 autoblindate. A fronte di questo imponente bastione difensivo, nel momento in cui l’azione dovrebbe cominciare, le tre colonne fasciste che hanno raggiunto le zone di concentramento contano forse in tutto 10.000 uomini. Sono uomini assetati, affamati, appiedati, avviliti, male armati, fradici di pioggia. Molti portano alla cintura soltanto pistole, pugnali e arnesi agricoli, nelle mani brandiscono mazze corte, bastoni, staffili. La maggior parte è senz’armi. Quelli che impugnano un fucile militare non hanno cartucce. […] La pioggia, torrenziale, li batte impietosa: scroscia di traverso, investe in pieno i volti, penetra sotto le mantelline, schizza sulle pozzanghere sollevando una spruzzaglia fangosa. L’interruzione delle linee ferroviarie a Orte e a Civitavecchia, disposta dal comando di Roma, obbliga i fascisti a proseguire a piedi. Si disperdono nelle campagne e nei boschi. I giovani rivoluzionari, dopo aver marciato da tutta Italia nella notte per andare all’assalto della Storia, si accampano come primitivi nelle capanne, nelle grotte, cercano riparo dalla pioggia sotto gli olmi. […] I ranci sono scarsi – pochi sacchi di patate, gallette di riso. […] Indolenziti, zoppicanti, improvvisati, avanzano. […] Sono ‘scalzacani’, sono decine di migliaia di giovani venuti da tutto il Paese per fare la rivoluzione ma nessuno gli ordina né di ritirarsi né di attaccare. Come nei tre anni di trincea, sono imprigionati in questa nuova terra di nessuno tra Orte e Tivoli e rimangono, dimenticati, alluvionati, catturati, con la loro cattiveria, con la loro fame di bottino, con i loro ideali, a marcire sotto la pioggia in questo vicolo cieco della storia”.

Qui c’è tutto il bluff mussoliniano, la “marcia” deve essere più che altro rappresentazione della violenza, una finzione da giocare come elemento di pressione sui tavoli romani. Infatti, una volta ritirato lo stato d’assedio nella mattina del 28 perché il re si rifiuta di firmare il decreto (“Inutile chiedersi il perché. Le ragioni sono tante e nessuna. La sfinge della storia siede muta, inamovibile, su ciò che è stato, che sarà, che avrebbe potuto essere e che invece resterà per sempre increato”), la messa in scena delle squadre fasciste ammassate alle porte di Roma permette a Mussolini di presentarsi come l’unico in grado di fermarle. Così, il 30 può presentarsi vincente al Quirinale:

Alle 11.05 del 30 ottobre millenovecentoventidue, nel momento in cui aveva salito le scale del Quirinale per ricevere dal re d’Italia l’incarico di governarla, Benito Mussolini, di origine plebea, zingaro della politica, autodidatta del potere, a soli trentanove anni era il più giovane primo ministro del suo Paese, il più giovane dei governanti di tutto il mondo al momento dell’ascesa, non aveva nessuna esperienza di governo né di amministrazione pubblica, era entrato alla Camera dei deputati soltanto sedici mesi prima e indossava la camicia nera, la divisa di un partito armato senza precedenti nella storia. Con tutto ciò, il figlio del fabbro – figlio del secolo – aveva salito le scale del potere. In quel momento, il nuovo secolo si era aperto e, al tempo stesso, si era richiuso sui suoi passi”.

30 ottobre 1922. Vittorio Emanuele III incontra Mussolini, nuovo capo del governo (da Autobiografia di una nazione…)

– Il “bivacco di manipoli”

Anche il celebre “discorso del bivacco”, col quale il 16 novembre Mussolini chiede e ottiene la fiducia della Camera, nelle mani di Scurati diventa arte letteraria senza perdere la sua drammatica veridicità. L’autore descrive il clima di quel giorno: “L’Italia, comunque la si rivolti, è in luna di miele con quest’uomo che entra in Parlamento con passo trionfale, tanto sollevato da terra che, pur camminando, dà l’impressione di entrare a cavallo. […] Nei suoi confronti l’aspettativa è enorme. Ci si aspetta che con lui, animale notturno, emerso dalle tenebre, la notte abbia termine”. Tutti scorgono in lui “una promessa di pace”: Croce, Giolitti, Nitti, Salvemini, “persino Amendola, cui gli squadristi hanno incendiato il giornale, si aspetta dal Duce il ripristino della legalità. […] Quasi tutti, e anche alcune delle sue vittime, augurano lunga vita e una ‘salute di ferro’ all’uomo dell’emergenza perché spurghi la ferita infetta. Alla malattia che deve curare se stessa”.

Mussolini pronuncia un discorso di rispetto formale per il Parlamento, ma di sostanziale disprezzo, si appella al popolo contro i parlamentari, dichiara di difendere i diritti della rivoluzione e potenziarla al massimo. Dice: “Mi sono rifiutato di stravincere e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. […] Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli”. Commenta Scurati: “Una scudisciata in pieno volto. L’insulto al Parlamento riecheggia nell’aula del Parlamento stesso: quest’aula sorda e grigia! Ora è chiaro che l’istituzione democratica sopravvive per pietosa concessione dell’uomo che sarebbe chiamato a governarla, a rispettarla, ed è lui stesso a dichiararlo. L’immagine del castigo – risparmiato ma, forse, soltanto rimandato – diventa, per gli onorevoli disonorati, il castigo stesso. Una frustata in faccia. Quasi tutti, sentendo di averla guadagnata, la ricevono senza nemmeno cercare di scansarla, senza riparo e senza reazione”. Mussolini continua: “Potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo di soli fascisti. Potevo ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto”. Commenta ancora Scurati: “I rappresentanti di diritto delle libertà democratiche stanno accettando che siano loro concesse dall’alto, per puro arbitrio e a patto che non ne facciano più alcun uso. Ciò che resta dell’istituzione democratica si aggiusta a vivere una vita a credito. Evidentemente, nessuno, o quasi, dei suoi rappresentanti si sente degno di rappresentare la libertà, titolato a difenderla”.

A conclusione del suo discorso, Mussolini dice: “Signori, io non voglio governare contro la Camera… finché mi sarà possibile… ma la Camera deve sentire la sua posizione particolare che ne rende possibile lo scioglimento fra due giorni come fra due anni”. E anche Scurati chiude: “E, con questo ultimatum, la XXVI legislatura è seppellita. I più intelligenti dubitano che ce ne possa essere un’altra. Sopravvivrà, due giorni o due anni, scontando a credito la propria morte”.

– Elezioni e omicidio Matteotti

Le elezioni ci saranno dopo un anno e mezzo circa, quando, ottenuta la nuova legge elettorale e formato il “listone” governativo che ingloba in quello fascista molti esponenti degli altri partiti e annacqua anche lo stesso Pnf soggiogandolo alla volontà del capo, Mussolini – il 6 aprile del ’24 – ottiene una schiacciante vittoria, col 64,9 per cento dei consensi. Scurati osserva che, anche se le opposizioni sono state decimate e solo i comunisti hanno guadagnato qualcosa, “il listone fascista è in minoranza nelle grandi regioni industrializzate del Nord e in tutti i loro capoluoghi, Milano compresa: gli operai delle fabbriche settentrionali hanno ostinatamente votato contro il fascismo. Il suo trionfo è dovuto al plebiscito del Centro e, soprattutto, del Sud, dove fino alla marcia su Roma il fascismo quasi non esisteva. Sono i fascisti dell’ultima ora ad aver consegnato il Paese a Mussolini, è la vocazione al servaggio dei popoli a scarsa educazione politica, la corsa a saltare sul carro del vincitore”.

Ma in Parlamento, ostinato come sempre, è stato eletto anche uno degli oppositori più intransigenti: Giacomo Matteotti. Da brivido le pagine in cui l’autore descrive il suo discorso alla Camera del 30 maggio ’24, col quale contesta i risultati delle elezioni, anzi contesta le elezioni tout court. Scurati si sofferma sull’atmosfera ostile dell’aula, sulla marea aggressiva della maggioranza fascista. Tra rumori, ingiurie, interruzioni, schiamazzi dei deputati fascisti, Matteotti parla per più di un’ora, sostenendo che i voti della lista di maggioranza non sono stati ottenuti liberamente, e fa l’elenco delle violazioni: “Firme mancanti alla presentazione delle liste, formalità notarili impedite con la violenza, comizi elettorali negati agli oppositori, seggi dominati dai rappresentanti di lista fascisti…”. Il deputato socialista non si lascia scoraggiare dalle urla e dalle minacce e va fino in fondo nella sua contestazione, pur costretto più volte ad interrompersi, “ricorda che il governo per coartare gli elettori disponeva di una milizia armata”, fa irritare i 370 deputati fascisti: “I cuori martellano nei petti, la pressione dilata le arterie, l’aula di Montecitorio s’impregna dei sentori del sangue”. I suoi attacchi al governo continuano anche nei giorni seguenti, fino a quando “si vocifera che Matteotti, durante il suo viaggio in Inghilterra, abbia raccolto un dossier sulle gravi irregolarità nella concessione petrolifera alla Sinclair Oil. Il deputato socialista si preparerebbe a denunciarle in pubblico durante la seduta parlamentare dell’11 giugno, dedicata alla discussione dell’esercizio provvisorio”.

Così, l’uomo firma la sua condanna a morte, dal momento che la violenza fascista nell’anno e mezzo precedente non era mai cessata sia contro i dissidenti interni che contro gli oppositori, come puntualmente raccontato da Scurati che si sofferma, in particolare, sull’uccisione di don Giovanni Minzoni, ad Argenta, in provincia di Ferrara, nell’agosto ’23.

La fase più drammatica dei drammatici eventi di questi anni è raccontata dall’autore seguendo il concitato svilupparsi degli eventi. All’aggressione-omicidio del 10 giugno, eseguita dagli uomini capeggiati da Amerigo Dùmini (l’ex Ardito di cui Scurati ha seguito fin dal marzo ’19 la carriera politico-criminale, con tanti episodi che ora acquistano il loro significato), seguono le “cento ore terribili”, i cinque giorni fino al 15 giugno in cui Mussolini, subito informato dai suoi collaboratori, appare travolto dalle immediate conseguenze del caso. Scurati sposa la tesi del suo pieno e intenzionale coinvolgimento. Il 12 la notizia della scomparsa di Matteotti si è già diffusa, nel pomeriggio il Duce parla alla Camera:

Alle 19.30 il presidente del Consiglio affronta il Parlamento. Lo accolgono lo sdegno e il terrore di uomini oramai consci che un loro simile, un loro collega può essere assalito e rapito in pieno giorno nel centro cittadino della capitale del Regno. Mussolini asseconda il loro sentimento: le circostanze del rapimento suggeriscono ‘l’ipotesi di un delitto’ – dichiara – un delitto che non potrebbe non suscitare ‘la commozione e lo sdegno del governo e del Parlamento’. Poi, di fronte a 500 rappresentanti del popolo e alla solennità della tragedia, Benito Mussolini mente spudoratamente: ‘La polizia, nelle sue rapide indagini, si è già messo sulle tracce di elementi sospetti, e nulla trascurerà per far luce sull’avvenimento, arrestare i colpevoli e assicurarli alla giustizia. Mi auguro che l’onorevole Matteotti possa presto tornare in Parlamento’. In questo preciso istante, il capo del governo conosce luogo, dimensioni e copertura della fossa in cui giace il cadavere trafitto dell’uomo che si augura di poter rivedere presto. Una bestemmia contro l’unica divinità che non le perdona, il dio dei morti”.

Segue, lo stesso giorno, l’arresto di Amerigo Dùmini trasferito a Regina Coeli. Intanto, il 13 girano voci incontrollate e le più fantastiche:

La notizia del rapimento di un parlamentare, in pieno giorno, nelle vie del centro, ha spezzato con violenza la vita violenta di tutti i giorni. L’indignazione è generale, le voci di protesta di elevano ovunque, anche tra gli stessi fascisti. […] Il probabile crimine appare così perverso e odioso da mettere in crisi l’intero sistema. La corruzione palese, i metodi violenti di lotta politica, la corrosione degli ideali sono diventati improvvisamente intollerabili a tutti. […] In casa fascista scatta il ‘si salvi chi può’. […] Si preparano memoriali difensivi […] comincia l’occultamento delle prove, la disseminazione di indizi fuorvianti, la distruzione delle tracce, partono i depistaggi, le false notizie diffuse ad arte, la macchina del fango”.

Il pomeriggio del 13, Mussolini ritorna alla Camera, ma ci sono solo i 370 deputati fascisti, le opposizioni hanno deciso di disertare l’aula per protesta. Velia Matteotti lo incontra quello stesso pomeriggio. Il giorno seguente, “un’ondata di sdegno e commozione sta sommergendo il fascismo, un gorgo di mormorazioni lo risucchia verso il fondo. Man mano che emergono dettagli del delitto compromettenti per gli uomini del governo, i giornali si scatenano in rivelazioni scandalose su loro malefatte di ogni sorta […] La foto di gruppo che risulta dagli uomini attorno a Mussolini è quella di una corte da basso impero. Per contro, la figura di Giacomo Matteotti assurge alla gloria del santo. La sua casa in via Giuseppe Pisanelli è già diventata meta di pellegrinaggio, nel luogo del rapimento si accumulano centinaia di corone di fiori, una sorta di mausoleo a cielo aperto. […] Il Duce appare sgomento, inebetito dalla sorpresa, paralizzato dalla delusione […] scuote il capo, fissa uno sguardo vitreo a un fantasma sulla linea dell’orizzonte: lui aveva sempre sognato, predicato, la necessità storica della violenza chirurgica, la ferocia precisa, esatta, inesorabile e si ritrova, invece, tra le mani impiastricciate di feci e sangue, il delitto bestiale”. Il 15, “attorno a Benito Mussolini d’improvviso si è fatto il vuoto. L’ordine di mobilitazione della Milizia che avrebbe dovuto difendere a spada tratta il regime è andato quasi deserto: a Roma ha risposto il quaranta per cento dei militi, a Milano il venti, a Torino nessuno”.

Ma dal 16 giugno, il re, tornato a Roma, gli riconferma la fiducia e lo incoraggia a proseguire la “normalizzazione”, nonostante Giovanni Amendola e le altre opposizioni lo abbiano sollecitato a chiederne le dimissioni. Mussolini si rianima e comincia con le contromisure, sacrifica alcuni collaboratori, come Aldo Finzi e Cesare Rossi, per spezzare la catena delle responsabilità. Ma il Paese rimane indignato, anche se “opaco”. Tra fine giugno e luglio le opposizioni si organizzano, decidono di astenersi dai lavori parlamentari “fino alla restaurazione dell’ordine politico e giuridico infranto”. È l’Aventino che “punta l’intera posta sulla questione morale. Come se il blocco fascista, cementato dall’ossequio a Mussolini e dalle complicità del potere, per essere frantumato, non dovesse uscire sconfitto da una battaglia a colpi di martello. Come se bastasse l’indignazione a contrastare il manganello. Come se la morale fosse una categoria della politica”. Ma tutto il Paese è nelle stesse condizioni: “Sì, la maggioranza degli italiani, inorriditi dal delitto, vorrebbe la caduta del fascismo per bonificare le sue case infestate dai fantasmi ma, poi, verso l’ora di cena, le esigenze della vita quotidiana prevalgono. La moralità non è tra queste. Il Paese è opaco, il suo sentimento della giustizia è fiacco, torbido, il sentimento di rivolta si riduce alla passione morbosa con cui si segue la cronaca dello scandalo”.

– Il cadavere

Impietoso il commento di Scurati, ma assai efficace, così come lo è il vivace prosieguo della sua cronaca a partire dal 16 agosto, quando, nel bosco della Quartarella, vicino Roma, viene ritrovato il cadavere di Matteotti:

L’orrore invade di nuovo il mondo. I giornalisti si scatenano. Nei boati della stampa, la cronaca minuziosa della svestizione del corpo, la violenza usata alla salma per comprimerla a forza in una fossa inadatta […] scariche di shock emotivo riscuotono gli italiani dal loro torpore semifestivo. Durante la notte, nelle strade della capitale, i ritratti di Mussolini vengono ritoccati con chiazze di vernice rosso sangue. La terra, dunque, ha reso il cadavere di Giacomo Matteotti. Il cadavere, pur con i suoi pochi lembi di carne, placa il fantasma. L’incubo è finito. La fine è iniziata”.

Il 21 agosto, a Fratta Polesine, si tiene il funerale di Matteotti: “Da questo momento in avanti, tutto precipita, la baracca si sfascia, l’Italia è un Paese in lutto, schierato al fianco del dolore materno. Il fascismo, di nuovo odiato dal mondo, ripiomba nel baratro dello squadrismo”. Ma a ripudiarlo sono in molti: gli industriali Olivetti, Conti, Pirelli; i liberali ne prendono le distanze; il Corriere della Sera lo attacca apertamente. Le celebrazioni del secondo anniversario della marcia su Roma si svolgono in piazze deserte. Alla riapertura della Camera, agli inizi di novembre, si vocifera di accordi tra i principali leader liberali per scalzare Mussolini. “La maggioranza si sgretola, il potere di Mussolini scricchiola”, si parla di successione. L’inchiesta giudiziaria porta i magistrati a chiedere il rinvio a giudizio, oltre che per gli esecutori materiali del delitto, anche per alcuni responsabili politici, quali Rossi e Marinelli.

Arroccate sull’Aventino, le opposizioni tentano di usare l’arma più potente: “l’accusa del sangue”.

Amendola decide di usare il memoriale di Cesare Rossi di cui è in possesso. A novembre, lo invia al re, sperando che sia lui a recidere il nodo; ma questi, come suo solito, non muove un dito. Allora, lo pubblica:

La prima anticipazione del memoriale appare sul suo giornale Il Mondo, il 27 dicembre. Il fascismo vi è smascherato come un vero e proprio illegalismo di Stato; il politico Mussolini vi è dipinto come un’indole di delinquente, mandante diretto delle violenze; l’uomo vi appare con una psicologia da basista del crimine, sempre attento a procurarsi un alibi per il giorno e l’ora del delitto. […] L’impressione suscitata dalle rivelazioni di Rossi, comunque, è ancora una volta enorme. Gli squadristi scalpitano, i giornali fascisti le liquidano come le solite chiacchiere, il Corriere della Sera chiede per la prima volta apertamente le dimissioni del presidente del Consiglio. Siamo di nuovo al muro contro muro, di nuovo ai coltelli”.

16 agosto 1924. Ritrovamento del corpo di Giacomo Matteotti (da Autobiografia di una nazione…)

– Il “3 gennaio”

Il 3 gennaio ’25 Mussolini rompe il nodo gordiano della vicenda Matteotti, tutt’altro che remissivo di fronte a un’opposizione che continua a disertare l’aula: “quest’uomo, messo con le spalle al muro, creduto oramai spacciato da tutti i suoi nemici, dimostra subito che non scenderà a patti. La sua poltrona di presidente del Consiglio è ancora una barricata, la sua apostrofe è rivolta a viso aperto ai suoi nemici”. Quando chiede minaccioso ai deputati se qualcuno voglia avvalersi dell’articolo 47 dello Statuto, che consente alla Camera di accusare i ministri del re e tradurli dinanzi all’Alta corte di giustizia, non parla nessuno. Così commenta Scurati:

Silenzio. Uno solo. È sufficiente che parli uno solo e lui sarebbe perduto. Tra i capi delle opposizioni, seduti ai loro scranni o mischiati tra la folla delle tribune, ci sono uomini di coraggio. Per anni la loro vita quotidiana è stata una trincea, hanno sopportato continue minacce, alcuni sono già stati picchiati più volte. Basta che si alzi uno soltanto di loro, che si erga solitario nell’accusa, spezzando la disciplina di partito, l’anello della violenza, opponendo forza morale a forza fisica, rispondendo all’appello del futuro, giustiziato nel presente per esser vendicato dai posteri, sommerso dalla vita per salvarsi nella storia. È sufficiente che si alzi uno solo per avvelenare tutto ciò che ‘Lui’ avrebbe ancora da dire, annotato in pochi appunti aperti all’improvvisazione su di un foglio volante. Nessuno si alza. Balzano in piedi soltanto i cortigiani fascisti per applaudire il loro Duce”.

Poi dichiara di assumersi “la responsabilità politica, morale, storia di tutto quanto è avvenuto”. E aggiunge: “Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!”. Scurati commenta: “Di nuovo, nessuno si alza ad arrestare il figlio del secolo”. A rispondere sono solo i fascisti con devozione entusiasta.

Insomma, l’avrete capito: il libro è tutto da leggere. Forse lo apprezzerà maggiormente chi ama la storia e magari vuol leggere qualcosa che non sia un manuale o un saggio storico. Chi vi cerca un romanzo, e solo questo, potrebbe rimanere deluso, o confuso, se non si accontenta della splendida scrittura di Scurati, di cui, citando diversi passi, abbiamo cercato in minima misura di render conto. Potrebbe, infatti, perdersi nei tanti capitoletti che cercano di tenere insieme le vicende mussoliniane come le tessere di un enorme puzzle. A tutti sarebbe consigliato, però, di affiancare a questo “romanzo documentario” un vero libro di storia, magari più d’uno; non dico i troppo dettagliati De Felice e Vivarelli, o magari il classico “Nascita e avvento del fascismo” di Angelo Tasca (che unisce a un certo valore storiografico anche quello della testimonianza personale), uscito di recente in edicola in un’edizione curata proprio da Scurati; ma almeno qualche biografia tra le numerosissime esistenti. Non guasterebbe anche il recente volume di Paolo Nello sulla “Storia dell’Italia fascista”. D’altronde, a molte di queste fonti bibliografiche, oltre che documentarie, ha attinto lo stesso autore.

Aggiungo, e chiudo, che mi sembra di aver letto da qualche parte la prossima trasformazione di questo libro in una serie televisiva. Non saprei se sia una cosa buona, di sicuro in molte parti il testo si presta a tale uso, apparendo abbastanza vicino a una sceneggiatura. Non vorrei che fosse, però, solo un modo per volgarizzare la storia, nel senso di cercare di rendere appetibile il discorso storico a un pubblico potenzialmente vasto infarcendolo di semplificazioni, drammatizzazioni e sentimentalismi. Insomma, un’operazione di marketing, che crea e vende una storia-fiction ad uso e consumo del pigro spettatore medio, tanto sensibile al prodotto televisivo quanto allergico a quello cartaceo. Per capacità di scrittura, lavoro di documentazione e impegno civile, Scurati è, invece, sfuggito ad ogni pericolo di banalizzazione. Se il suo racconto non è storia ma letteratura, la sua penna aiuta ad avvicinarsi alla storia, invoglia a saperne di più, invita ad allargare l’orizzonte delle proprie letture, cioè lo spazio della propria mente.

Author: manlio morra

1 thought on “Scurati e il suo “Figlio del secolo”: romanzo o storia?

  1. In autunno, su Sky, verrà trasmessa la versione televisiva di “M figlio del secolo”.
    Per tale produzione, la regia è stata affidata al britannico Joe Wright e, nei panni di Mussolini giovane, l’attore Luca Marinelli.

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