
Sei viaggiatori su un treno che da Roma va verso sud, l’intrecciarsi tra loro di relazioni che sembrano occasionali e di circostanza, una sosta più lunga del previsto a Vallo che genera un colpo di scena, una casa-pensione abbandonata nel cuore del Cilento ma che sembra destinata a rivivere, due storie d’amore e forse tre che fanno di un gruppo di sconosciuti una famiglia, ma soprattutto il lento delinearsi di un amore verso una terra, quella cilentana, dinanzi alla quale non si può che provare stupore, un misto tra guardare e ammirare, tra sguardo ed emozione.
Questo e molto di più raccontano le poco meno di duecento pagine della prima prova letteraria di Antonella Casaburi, autrice vallese e, più ancora, cilentana, visto il suo sguardo su un intero territorio. L’enigma del titolo, Mirari, viene svelato solo verso la fine, quando però il romanzo, uscito ormai da più di tre anni (e del quale credo si prospetti una continuazione), ha ancora qualche sorpresa da far vivere ai suoi lettori. In realtà, avrebbe potuto intitolarsi anche Dolcezza dei Sogni, il nome della pensione ereditata da Giulia, la protagonista, e che era stata della nonna Elvira, cilentana vera il cui spirito aleggia su quella casa fino alla sorpresa, commovente e ricca di speranza, delle ultime righe (che non saprei se interpretare come una sorta di staffetta tra generazioni o come qualcosa che un po’ ricorda La casa degli spiriti dell’Allende); oppure, forse un più banale ma sempre ad effetto, Ritorno al Cilento (con echi cinematografici, oltre che letterari), nel senso di recupero delle proprie radici dopo un percorso di crescita e di presa di coscienza personale della stessa protagonista, ma un po’ anche dei componenti della sua comitiva.
I sei personaggi sono ben delineati fin dall’inizio, quando entrano in scena in sequenza cominciando a interagire grazie a un sapiente uso dei dialoghi. In quella cabina del treno in cui si svolge il primo step della storia, infatti, tra chi è infastidito e chi non aspettava altro, si parla molto come un po’ in tutto il romanzo (forse è un inconscio presagire la possibilità di una futura e auspicabile trasposizione filmica dell’intera storia). Ed è un pregio, soprattutto quando il serrato ricorso ai dialoghi serve a far descrivere ai personaggi ciò che accade piuttosto che all’autore onnisciente.
La protagonista è Giulia, giovane romana di origini cilentane, iscritta a Lettere alla Sapienza con l’obiettivo più o meno incerto di fare la critica letteraria. La ragazza, dai capelli rossi – come la sua valigia sbarazzina – e dagli occhi azzurri, è bella ma ha un fondo di tristezza nell’animo, ha già vissuto troppe esperienze negative per i suoi 21 anni: la morte tragica dei genitori, la sofferenza del tradimento in amore. Per questo è disillusa e decisa a non farsi più ingannare, soprattutto dagli uomini. Scende in Cilento per vendere la casa ereditata dalla nonna e col ricavato iniziare a costruire il suo futuro lontano dalla terra d’origine in cui ha vissuto solo le vacanze estive dell’infanzia. La sua sicurezza però è solo apparente e destinata a cedere dinanzi ai giochi del caso: l’incontro con gli altri viaggiatori nella sua cabina e la nascita nei confronti di uno di essi di un sentimento sincero, inizialmente respinto senza avere però la forza di resistere.
Tutto il romanzo è giocato sui cambiamenti indotti nella protagonista dagli esiti di questo viaggio, sulle sue decisioni che la legano sempre più a una terra che le era indifferente solo perché non la conosceva e non poteva chiamarla “casa” non avendovi nessun ricordo, nessun affetto, nessuna radice (meglio ancora, radici a lei per lo più ignote). In questo senso, si può dire che è un romanzo di formazione, dove però la crescita riguarda un po’ l’intera comitiva trovatasi occasionalmente sul treno.
È il giovane medico agrigentino Paolo l’uomo che fa scoccare la scintilla tra i due. Riccio, biondo, dalla carnagione chiara e gli occhi azzurri, ha ben poco di siciliano. Anche lui vive a Roma ma è precario, non andando molto più in là di qualche guardia medica estiva. Il suo è un amore a prima vista, che Giulia ricambia col cuore ma respinge con la mente. I due, però, già a p. 30 amoreggiano, indifferenti allo sguardo curioso degli altri passeggeri. Un sentimento che forse appare troppo precoce nell’economia della storia perché sembra preannunciare uno scontato happy ending. Almeno questa è la sensazione che ho provato io leggendo, per poi ricredermi dinanzi agli ostacoli che l’autrice pone alla sua protagonista, facendola oscillare a lungo fra attrazione e rifiuto per quell’insolito siciliano (che è poi tutto un discorso di maturazione interiore della protagonista).
Bella la scena dell’addio tra i due alla stazione di Vallo, che poi scopriremo non essere tale (l’addio, non la stazione!). Noi però non lo sappiamo ancora e possiamo quindi commuoverci:
“Prima di lasciarla andare per sempre, Paolo scese l’ultimo gradino del treno e appoggiò un piede a terra. Voleva tenerla vicino a sé ancora per qualche secondo. Né Giulia si oppose quando Paolo la cinse fra le braccia e le diede un tenero, ultimo bacio sulla fronte. ‘Volevo solo conoscerti. Perché me l’hai impedito?’. Giulia si liberò dall’abbracciò e andò via senza voltarsi”.
Ma poi, nel prosieguo, in macchina, dice a se stessa che non può permettersi di pensare a quell’uomo e che non deve piangere. Esattamente le due cose che sta facendo. Un no che nasconde un sì anche a se stessa (qualche maligno penserà che è tipico delle donne; ma forse lo è di tutti i delusi, gli indecisi, gli insicuri).
In quella cabina sembra nascere anche un’altra coppia, formata dalla quarantenne saprese Maria, cuoca precaria in cerca di una migliore sistemazione economica e professionale ma non fino al punto da lasciare la sua amata terra cilentana (“… preferisco arrangiarmi, pur di restare nel Cilento: la mia terra e la mia casa. Rimango con la speranza che le cose migliorino”), e l’ingegnere Francesco, fiorentino separato e senza legami che nel Cilento ci lavora e se ne è innamorato considerandolo “una delle ultime oasi di pace” e che ne conosce le bellezze della costa e dell’interno anche meglio di chi ci è nato. Sua la considerazione forse più profonda (e amara) della storia quando, condividendo l’attaccamento di Maria per il suo paese, le dice che “alle volte il coraggio sta nel restare. E nel resistere”.
Insomma, a questo punto, soprattutto se si è cilentani, non si può non condividere il sofferto amore di alcuni protagonisti verso una terra bella e difficile, che attrae chi ci arriva da fuori e stenta a trattenere chi ci è nato. Felice di rimanerci è, invece, Giovanni, un altro compagno di viaggio, che nel Cilento fa il contadino (senza ritenersi un imprenditore agricolo), gira per mercati e non si promuove in rete, osteggiando social e diavolerie moderne simili. Grosso e buono, un po’ fuori dal mondo e impacciato negli affari di cuore, Giovanni però è spontaneo e gentile, dimostrando di possedere occhio fine e linguaggio poetico quando afferma, con un certo orgoglio davanti agli altri passeggeri, che il Cilento è “il paradiso nascosto d’Italia”. Sarà lui ad aiutare la spaesata Giulia a raggiungere quell’eredità cilentana di cui ignora quasi tutto e ha conservato solo un vago ricordo.
Questo personaggio risponde un po’ al cliché del contadino innocente e del cilentano non aggiornato (per non dire arretrato), ma è forse quello che più rappresenta il punto di vista dell’autrice, essendo l’unico cilentano puro che conosce i luoghi, gli abitanti, le atmosfere, e fuori da questa terra magica si sente spaesato e nostalgico (a parte la stoica Maria, che oggi diremmo “resiliente”, che del Cilento rappresenta le buone tradizioni della cucina e dell’accoglienza, con la sua capacità di preparare i fusilli al ragù fatti a mano, i cannoli, le pastorelle e la vecchia cara “torta della nonna”, quella con crema, amarena e glassa; glassa che a casa mia chiamavano col misterioso nome di “naspro”).

E poi c’è l’ultimo dei viaggiatori, il più misterioso e per questo il più intrigante. Di lui non ci vengono svelati il nome, che ignoreremo a lungo, e l’identità, la cui scoperta darà una svolta alla storia. È un anziano distinto ma irritante, in quella cabina sembra appartato e tutto intento a difendersi chissà da cosa (lo scopriremo più in là nel corso della storia), ma interviene su tutto con tono sentenzioso e sembra provare un certo gusto a mostrarsi cinico. Giulia ne è infastidita, per lei quel “vecchiaccio” è l’unico passeggero davvero indesiderato. Eppure sarà proprio con lui che la giovane stabilirà quasi un rapporto filiale (ed è questa la terza storia d’amore cui accennavo nei righi iniziali), che nelle ultime pagine diventa commovente, svelando il carattere di Giulia e il suo attaccamento per quell’uomo che gioca a fare l’antipatico, forse lo è davvero per il suo orgoglio intellettuale, ma che in fondo è soltanto abituato ad esser franco e che, dopo tre matrimoni falliti, è rimasto solo.
Il personaggio è forse il meglio riuscito. Il modo in cui lo si fa muovere, in apparenza fuori dai progetti e dagli entusiasmi degli altri ma pronto a prendersi il centro della scena, e la funzione che svolge nell’economia della storia, portandovi il mistero della scoperta e il piacere dell’arte, meritano un plauso all’autrice. Sì, il prof. Ferdinando Maria De Claris, docente e critico d’arte, nell’ambiente soprannominato “il sommo”, è proprio una presenza inaspettata, fuori dal coro, ma che accetta di integrarsi in quella comitiva che sembrava disprezzare, forse perché intravede in Giulia la figlia che non ha e negli altri del gruppo le persone in cui instillare l’amore per la cultura di quel territorio. Fragile ma inarrestabile, disilluso ma appassionato, sembra essere lui il vero protagonista; di sicuro lo è il suo rapporto con Giulia, che gli tiene testa, lo ritiene irritante e non vede l’ora di liberarsene, ma poi lo veglia per giorni in ospedale dopo la sua caduta, abbandonandosi al pianto di un affetto sincero.
La storia si dipana attraverso una serie di colpi di scena che la rendono assai vivace e accattivante, nonostante non ci sia nessun morto e solo un mezzo ferito. Il primo si verifica alla stazione di Vallo. Giulia e Giovanni sono arrivati e la compagnia dei viaggiatori si scioglie. Io che credevo fosse il racconto di un viaggio, forse sviato dalla copertina, sto per rimanere deluso. Le simpatie e i mezzi sentimenti nati in quella cabina si rivelano effimeri e del tutto occasionali, nonostante Paolo in cuor suo ci avesse creduto. Ma è tutto un bluff, perché il ritardo del treno si trasforma in una sosta forzata e i sei viaggiatori – grazie a un escamotage che non vi racconto – si ritrovano poco dopo di nuovo insieme sotto un unico tetto, quello dell’ex pensione ereditata da Giulia.
Da qui parte la storia vera e propria centrata sulla strana idea che nasce ben presto nel gruppo di riaprire nella forma di un moderno B&B la vecchia Dolcezza dei Sogni. Idea a lungo osteggiata da Giulia che di quella casa vuole disfarsi insieme ai labili ricordi d’infanzia. Il luogo però è un incanto e la ragazza se ne accorge, con emozione, il giorno seguente, quando esplora i dintorni della casa:
“A piccoli passi risalì lentamente il morbido crinale alberato. Lo scompiglio che aveva in mente fu dissipato dall’immagine che le si mostrò davanti. Alla sua destra la città di Velia troneggiava sull’acqua limpida, e tutte le emozioni che Giulia provava sapevano d’imprevisto; imprevisto era odorare i profumi della natura mescolati dalla brezza del vento e dal calore del mare; imprevisto era essere in quella terra autentica, viscerale, pura, senza orpelli. E si sentì conquistare”.
Attenzione al verbo. Giulia non è già conquistata ma in lei comincia ad agire il fascino di quel paesaggio cilentano, un misto di storia e di natura che comincia ad entrarle dentro. E chi potrebbe resistere a quel mare, a quel sole primaverile (siamo nella domenica delle Palme), a quelle rovine mute eppure ancora parlanti, a quel rigoglioso spettacolo che ti riempie gli occhi e la mente?!
Quella pagina e molte altre sono un invito a lasciarsi accogliere dal Cilento, ad abbandonarsi tra le sue braccia antiche e immergersi nelle sue atmosfere senza tempo dove puoi udire le Sirene e incontrare un vecchio filosofo che t’incanta col linguaggio poetico dell’Essere. Noi cilentani lo sappiamo (meglio, dovremmo saperlo!) e possiamo quasi individuare il luogo dell’ambientazione romanzesca, inventato ma non troppo (anche se l’autrice non ne rivelerebbe mai l’ubicazione).

Un altro colpo di scena è la scoperta di una villa misteriosa, sita a poca distanza dalla casa. È un edificio antico di fine ‘700-inizi ‘800, con ambienti affrescati di grande fattura. Qui si svolge una delle scene più riuscite del romanzo. La ragazza, mentre esplora gli interni della villa, si trova dinanzi al corpo di un uomo disteso a terra. Le prende un colpo e sviene. Sembra essere nel momento clou di una trama poliziesca, ma è solo il vecchio – che ancora non ha rivelata la sua identità – che ha adottato quella posizione quasi da morto per studiare l’affresco posto sul soffitto dell’elegante salone al centro della villa. Quell’incontro quasi da infarto per la giovane scatena, sì, la sua ira quando si riprende, ma è anche il momento da cui nasce la complicità con quell’uomo che la irrita e la incuriosisce al tempo stesso. Inoltre, la scoperta della villa e dell’affresco sono la ragion d’essere del personaggio di Ferdinando, che proprio per salvare quel bene si farà coinvolgere nell’avventura degli altri. Infine, è l’affresco a rappresentare il collegamento con la storia di quel luogo e con l’avventura del gruppo, perché – come scopriremo quasi alla fine del romanzo – esso illustra il mito della ninfa Yele e la storia dei Focei fondatori di Elea.
Proprio davanti alle rovine dell’antica città e alla sua torre medievale, il prof. De Claris spiega agli altri il mito della ninfa vagante e la storia di un popolo che, prima di fondare la polis cilentana, vagò a lungo per il Mediterraneo. Due storie legate da quel desiderio di casa, quell’aspirazione di metter radici che, fin quando non si realizza, rende tutti dei vaganti. Così si sentono i sei protagonisti, avvertendo anche che qualcosa per loro sta cambiando:
“Ma in fondo – dice il prof – non siamo tutti in cerca di un luogo che ci faccia sentire a casa? Credo che noi, il nostro luogo, l’abbiamo trovato”. E poi la rivelazione del senso di quel momento di stupore: Mirari “non significa banalmente l’atto del guardare; Mirari per i latini significava stupirsi per qualcosa, meravigliarsi, ammirare. … È quanto occorre fare quando qualcosa tocca il nostro cuore, l’avvolge, lo conquista … e chiedendoci di vedere non soltanto con gli occhi ma con l’anima, rende ciascuno di noi una persona diversa, migliore”.
Credo di averlo già scritto che si tratta di un romanzo di formazione, anzi di trasformazione. Qui questo cambiamento è proprio descritto. I sei sono cambiati perché innamoratisi del luogo, sono diventati migliori trasformandosi da precari di una vita insoddisfacente, da arrangiare alla meglio, in persone che stanno per mettere radici perché hanno trovato casa e la possibilità di una vita libera. Per questo hanno il coraggio di scommettere, seguendo quanto dice loro Ferdinando:
“Voglio scuotervi! … Invitarvi a scommettere su questo posto, sul nostro progetto insieme! Benché molti suoi figli siano costretti a emigrare per trovare un’occupazione, benché molti suoi paesi sembrino fantasmi smarriti, abbandonati in un paradiso nascosto, benché, dunque, riconosca di sembrare idealista, e forse sì, sono un vecchio idealista, vi invito a scommettere insieme a me”.
Sono sicuro che questo invito sia rivolto a tutti i lettori, perché nel prof. De Claris c’è, forse più che negli altri personaggi, la voce dell’autrice e un romanzo – pur sospeso nell’etereo mondo della pura creazione (la sub-creazione di Tolkien) – parla sempre al presente di chi legge.
Quasi all’ultimo è collocato il colpo di scena dell’incidente capitato a Ferdinando, che casca dal balcone della villa per essersi sporto troppo nell’intento di ascoltare i discorsi degli altri nella casa lì vicina. Incidente che è un escamotage per far sanare i contrasti che stavano emergendo nelle intenzioni del gruppo, col prof che voleva ci si occupasse soprattutto di salvare la villa e i suoi tesori d’arte e gli altri cinque intenzionati a partire prima col B&B che è il vero sogno della loro nuova avventura. Mentre De Claris rischia addirittura la vita, Giulia scopre di esserglisi affezionata e che dietro a quell’atteggiamento di vecchio cinico e bastian contrario c’è un uomo che di lei aveva già colto capacità e carattere, parlandone con entusiasmo alla sorella. Insomma, è un’altra scoperta verso la costruzione di quella famiglia che il gruppo di sconosciuti, incontratisi casualmente su un treno, sta per diventare grazie all’apertura della Dolcezza dei Sogni, al coraggio di scommettere su quel territorio, alla capacità di credere ancora all’amore; l’amore consapevole di Giulia non più chiusa nel suo “mai più!”, quello a prima vista di Paolo convinto che dove c’è lei per lui è casa, quello maturo tra Maria e Francesco, non dichiarato ma evidente e che sicuramente avrà sviluppi in un prosieguo della storia, quello di Giovanni per la terra, il lavoro, la vita genuina.
E infine, e soprattutto, quello di tutti e sei i protagonisti corali del romanzo verso quel “paradiso nascosto d’Italia”, quell’ultima “oasi di pace”, che è il Cilento. Oasi della quale i personaggi visitano alcuni dei luoghi più suggestivi, quali Velia, Paestum e Agropoli alta (vedi le foto).
Romanzo delle radici ritrovate e riconosciute come tali, Mirari è una storia in cui sei personaggi non sono in cerca di un autore ma di un senso che cambi la direzione delle loro vite, dando ad esse una dimensione più piena; immancabilmente lo trovano nella forza di un progetto comune, nel sentimento che li unisce, nella soddisfazione di aver trovato un luogo da poter chiamare “casa”.
È come se la scoperta di quel luogo avesse provocato in loro lo stesso desiderio di non perderlo più che, millenni prima, aveva generato nei profughi di Focea la visione del promontorio incuneato nel mare eletto a proprio rifugio dalla leggendaria Yele. Negli occhi e nel cuore di quegli antichi greci si generò il medesimo stupore dei moderni compagni di Giulia.
Il senso della storia è forse questo: chi conserva la capacità di stupirsi trova e genera amore. Che tutto questo avvenga in un Cilento vero e romanzato, sconosciuto e solare, intrigante e problematico, è un miracolo che l’autrice ci svela col garbo della sua scrittura, sussurrandolo in particolare a noi cilentani, troppo spesso ciechi spettatori della meraviglia in cui viviamo.