
Il recente avvicendamento alla direzione del Santuario mariano del Monte Sacro ci porta a viaggiare con la memoria fino ad arrivare al lontano 1967, quando l’attuale rettore uscente, don Carmine Troccoli, fu investito dal vescovo D’Agostino della cura materiale e spirituale di quel santuario. La nomina si era resa necessaria per la rinuncia del precedente rettore, mons. Alessandro Salati, a causa di suoi problemi di salute. Don Alessandro aveva tenuto l’incarico per vent’anni, essendogli stato conferito a giugno del ’47 da mons. Savarese, appena entrato in diocesi.
In quei primi anni del secondo dopoguerra, tra le tante nomine effettuate dal neovescovo, quella del rettore del Sacro Monte di Novi non dovette essere la più semplice. Infatti, si trattava del santuario mariano più importante della diocesi per antichità, diffusione del culto e afflusso di pellegrini; inoltre, occorreva sostituire don Luca Petraglia, scomparso agli inizi di giugno di quell’anno, che ne era stato rettore per circa cinquant’anni, morendo proprio sul santuario.
Don Luca era stato un realizzatore fin dal 1898, quando il vescovo Maglione lo aveva chiamato ad affiancare il rettore, il can. Giovanni Speranza, che era anche vicario generale della diocesi e arcidiacono del capitolo. Per questo, in circa dieci anni, lo aveva praticamente sostituito in quell’incarico, divenendo ufficialmente rettore solo nel 1907, alla morte di don Giovanni.
Sostenuto da mons. Iacuzio prima e da mons. Cammarota poi, il can. Petraglia aveva presieduto alla costruzione della nuova chiesa, completata nel 1916 e consacrata il 7 settembre 1917 (quando Iacuzio era già stato nominato arcivescovo di Sorrento ed era in procinto di lasciare la diocesi), alla realizzazione della Via Crucis (1907 e 1915), all’erezione del nuovo campanile (consacrato dal vescovo Cammarota il 16 luglio 1930) e a far realizzare varie altre opere di ampliamento, consolidamento e sistemazione di strutture.


La sua attività – come quella di tutti i rettori, precedenti e successivi – era volta a migliorare le condizioni di fruizione del santuario, da secoli meta di pellegrinaggi diocesani ed extradiocesani, e oggetto di una ricca stratificazione culturale, religiosa, di tradizioni orali e materiali formatesi lungo un arco temporale millenario. Stratificazione in cui storia, memoria e leggenda si intrecciano, si fondono, si scontrano, come accade spesso in siti di questo tipo.
La prima notizia storica sicura risale al 1323, quando Tommaso Marzano, barone di Novi, acquista dal vescovo di Capaccio, Filippo Santomagno, il santuario per donarlo ai Celestini, monaci che aveva chiamato a Novi già all’inizio del secolo offrendo loro come convento una parte del suo palazzo. La notizia ci è fornita da padre Bernardo Conti nel suo Istoria e miracoli della Beata Vergine del Sacro Monte del Vallo di Novi…, un libro di inizi Settecento in cui l’autore, anche lui celestino, fa la storia, infarcita di leggenda, del santuario. Non è leggenda però l’acquisizione quell’anno da parte dell’ordine fondato da Celestino V del luogo di culto mariano posto sulla cima di quello che era già chiamato “Sacro Monte”. L’ordine lo avrebbe tenuto per quasi cinquecento anni, fino al 1807.
Nella prima metà del XIV secolo il santuario, però, era già celebre e frequentato, il che lascia pensare ad una fondazione molto più antica e ascrivibile a esperienze e influenze religiose di altro genere e provenienza.
Secondo don Carmine Troccoli – e convengono con lui anche Amedeo La Greca e Pietro Ebner – l’ipotesi più probabile circa l’origine del santuario è quella che lo fa risalire ai monaci italo-greci, cioè a quei religiosi bizantini che abitarono il territorio cilentano nella seconda metà del I millennio, arrivandovi perché in fuga dall’avanzata musulmana in Oriente, dalle lotte iconoclaste e dalla conquista araba della Sicilia.
Dunque, non c’è una data precisa ma una collocazione storico-temporale che lo fa risalire certamente a prima del Mille e, probabilmente, al X secolo, quando l’afflusso di quei monaci si fece più rilevante. D’altronde, i monaci orientali erano degli eremiti dediti soprattutto a pratiche ascetiche e preferivano, di conseguenza, i luoghi di altura, selvaggi, boscosi, disabitati e difficili da raggiungere, dove potersi liberamente dedicare al culto delle loro immagini sacre, soprattutto della Vergine Odigitria, venerata col titolo conferitole ad Efeso di Theotòkos (Madre di Dio).
Secondo la tradizione popolare, invece, le origini risalgono a un ritrovamento miracoloso. Scrive Ebner nel suo celebre saggio su “La Baronia di Novi”:
“Si racconta che alcuni pastori di Novi, mentre erano intenti a costruire un’edicola sul pianoro di S. Croce del monte … fossero costretti a rifare di giorno quel che di notte veniva disfatto. Non riuscendo a rendersi conto del perché della cosa si convinsero che l’unico modo per scoprire il vero colpevole fosse quello di appostarsi colà per sorprendere l’autore del danno. Portarono così, per cibarsene, un agnello che fuggì verso la cima del monte perdendosi nella notte. Solo verso l’alba, richiamati dai suoi belati, lo sorpresero immobile davanti a una grotta chiusa da un rozzo muro di pietre. Penetrativi scorsero stupiti un simulacro della Vergine. Da allora, da oltre un millennio la cima del monte è meta di continui e devoti pellegrinaggi”.
In seguito, in quel luogo il vescovo decise di costruire una cappella, quella originaria non più esistente. Il racconto ripropone il topos del rinvenimento miracoloso dell’immagine interpretato come volontà divina. La leggenda, naturalmente, è per sua natura senza tempo e priva di contesto, ma alcuni dati sembrano non contrastare con l’ipotesi degli italo-greci, come quello, ad esempio, che, in alcune versioni del racconto, precisa che la grotta o la nicchia del ritrovamento fosse rivolta verso oriente, secondo l’usanza bizantina nel costruire i luoghi di culto e volta a ricordare il legame con quell’Oriente da cui provenivano i monaci.


A ciò vanno aggiunte le caratteristiche del simulacro della Madonna: in legno, dal viso scuro, rappresentata seduta col bambino sul braccio sinistro, con i tratti somatici alla greca. Insomma, esso risponde alla più tipica iconografia bizantina (anche se la statua attuale non è quella risalente ai secoli altomedievali, ma un rifacimento successivo sottoposto a vari interventi di restauro). Inoltre, la presenza sul santuario del culto di S. Bartolomeo accanto a quello della Vergine, con un’antica cappella oggi ricostruita, è un altro indizio che porta a quei monaci. Si tratta, infatti, non dell’Apostolo – cui attualmente la chiesa è dedicata – ma di S. Bartolomeo di Rossano, amico e discepolo di S. Nilo, come lui proveniente dalla Calabria e morto a Grottaferrata (nel 1055). Presenza che parla di una quasi sicura permanenza di eremiti orientali, poi forse di un vero cenobio i cui monaci avrebbero aggiunto all’Odigitria il culto di un loro confratello ritenuto santo, per doti, carisma, fama (cosa che accadeva spesso tra gli italo-greci; si pensi a S. Filadelfo per la Badia di Pattano). Infine, non è da sottovalutare il dato – fortemente sostenuto da don Troccoli, suffragato dalla sua lunga esperienza di rettore – che le zone di influenza del santuario, da cui per secoli sono arrivati i pellegrinaggi, corrispondano quasi esattamente a quell’area geo-culturale dove si diffusero i monasteri bizantini (Cilento, Vallo di Diano e Val d’Agri, nord della Calabria).
Ce n’è abbastanza per ritenere fondata la tesi che l’ambito in cui nasce il santuario di Novi sia quello bizantino, dei monaci italo-greci spesso chiamati anche basiliani. D’altronde, già i saraceni, che razziavano il territorio tra IX e X secolo (e che rimasero a lungo annidati ad Agropoli), chiamavano quel monte col nome Gelbison, che significherebbe “monte dell’idolo” (gebil el son; anche se, di recente, c’è chi ha ritenuto il vocabolo di più probabile derivazione germanica, indicante le “terre rosse” presenti sulle sue pendici chiamate Gelbeisen nel tedesco in uso fino all’Ottocento). Termine che indicherebbe la presenza già allora sulla cima del monte di un luogo sacro (l’idolo per quei musulmani, ostili alla rappresentazione della divinità per immagini, era l’icona lignea della Madonna). Una conferma indiretta dell’antichità del santuario, senza contare che, con ogni probabilità, quel monte fosse ritenuto sacro fin dall’epoca greco-romana e anche in tempi preistorici, simboleggiando – come tutte le vette – la maggiore vicinanza al divino e la possibilità di farne esperienza personale.
Non sappiamo come e quando il santuario sia passato nelle mani dei vescovi, ma fu probabilmente l’arrivo dei Normanni nella seconda metà dell’XI secolo a mettere in fuga gli italo-greci o a renderne difficile la continuazione dell’attività (prima di fuggire, però, avrebbero nascosto l’immagine, poi trovata secondo la leggenda dai pastori). Difficoltà che si registrano in tutta la regione, piena dei loro cenobi non più tollerati da una chiesa cattolica che, soprattutto dopo lo scisma del 1054, intendeva latinizzare nei culti, nei riti e nell’obbedienza l’intera diocesi. È presumibile, quindi, che i vescovi di Capaccio abbiano esteso la loro piena giurisdizione sul Monte Sacro verso il finire di quel secolo, tenendola fino alla donazione ai Celestini della prima metà del Trecento.
Il periodo bizantino e quello dei vescovi ci sono quasi del tutto sconosciuti e ci costringono a ragionare per ipotesi. Meno oscura è la lunga fase celestiniana, soprattutto grazie ai cronisti e agli storici dell’Ordine. Padre Bernardo Conti ne parla agli inizi del Settecento, ma quasi un secolo prima vi si era soffermato anche l’abate Telera, Generale dell’Ordine, nel suo Historie sagre degli huomini illustri per santità della Congregatione de Celestini…, scrivendo tra gli altri di p. Donato Pinto, rettore del santuario dal 1600 al 1626, per celebrarne la vita santa che attrasse molti verso quel Monte, rendendolo – scrive – una delle “maggiori divotioni che hauesse il Regno di Napoli”. A lui si devono le prime costruzioni di cui si ha più chiara notizia e che ampliarono e svilupparono le poche fabbriche già realizzate dai predecessori. Secondo il can. Maiese fu lui a far erigere la cappella di S. Bartolomeo, “quella di S. Michele Arcangelo che sorgeva sull’Orto dei Preti, e quella di S. Vito e di Santa Croce che erano lungo la strada che da Novi mena al Santuario”. Don Luca Petraglia scrive che solo a partire dal Cinquecento i Celestini cominciarono a costruire “in orizzonti aperti”, in precedenza si erano adattati a sistemare le preesistenti grotte che risalivano agli scopritori o realizzatori dell’immagine sacra. In particolare, padre Donato ampliò l’antica chiesa, abbellì la nicchia della Vergine, realizzò la via che girava attorno alla stessa chiesa (ai suoi tempi si sarebbe originata la tradizione dei fedeli di girare attorno ad essa tre volte prima di entrarvi).

Con la soppressione dei Celestini nel Regno di Napoli ordinata da Giuseppe Bonaparte con decreto del maggio 1807, viene soppresso anche il loro monastero di Novi da cui dipendeva il santuario, che così torna nelle mani dei vescovi capaccesi.
Fino al 1860 si susseguono quattro rettori nominati dagli ordinari diocesani. Il primo è il parroco di Buonabitacolo, don Gennaro Caiafa, chiamato da mons. Speranza; a lui seguono il can. Nicola De Lisa, e i sacerdoti Baldassare Marino e Giovanni De Augustinis. Tutti sistemano le strutture esistenti, ne realizzano di nuove, cercano di rendere più accogliente il luogo per i pellegrini che non avevano mai smesso di affluirvi.
Il ventennio seguente è, forse, quello più difficile nella storia recente del luogo sacro. Infatti, il comune di Novi, approfittando anche dell’assenza dalla diocesi di mons. Siciliani, rifugiatosi a Portici per le vicende che portano alla nascita del Regno d’Italia e alla fine dei Borbone verso i quali era rimasto fedele, occupa, agli inizi del decennio, il santuario ritenendo trattarsi di un’opera pia laicale sottoposta all’amministrazione del comune. Si apre così un contenzioso che continua e si fa più aspro quando il vescovo, agli inizi degli anni Settanta, rientra in sede (cioè a Vallo, divenuta nel 1851 il centro della nuova diocesi di Capaccio-Vallo) e comincia a difendere i diritti della diocesi ricorrendo alla legge. Ma è solo nel 1880 che la Cassazione gli dà definitivamente ragione, riconoscendo ai vescovi la piena amministrazione del santuario mariano.
Intanto, mons. Siciliani era morto e fu il suo successore, mons. Pietro Maglione, a rientrarne in possesso. Al vescovo apparve naturale nominare rettore il canonico teologo Nicasio D’Ambrosio di Massa, il quale aveva seguito direttamente la causa col comune di Novi negli ultimi anni. Il teologo si adoperò per risistemare le strutture esistenti dopo il lungo periodo di trascuratezza, intervenendo sugli edifici, in gran parte danneggiati nelle coperture, e sulle chiese, disadorne e vittime dell’incuria, e riuscendo a far incoronare la statua della Madonna dal Capitolo vaticano. La solenne cerimonia si svolse il 15 agosto del 1889 col vescovo diocesano e con i vescovi di Potenza e Muro Lucano (rispettivamente, Tiberio Durante e Raffaele Capone). L’anno seguente, alla sua morte, gli successe il can. Giovanni Speranza che avrebbe avviati i lavori per la nuova chiesa, poi completata da don Petraglia.
Come si vede, quella del santuario è una storia lunga e complessa, fatta di alti e bassi, per larghi tratti sconosciuta. L’unico elemento di continuità è forse la devozione secolare dei fedeli che ha attraversato tempi e temperie culturali non sempre favorevoli, giungendo intatta, o quasi, fino a noi. Tutti i rettori sono rimasti a lungo responsabili del luogo sacro loro affidato, innamorandosene immancabilmente, anche per il continuo bisogno di cure delle sue strutture soggette a un forte stress ambientale soprattutto in inverno. Molti di loro si sono impegnati strenuamente per migliorare la permanenza dei devoti e lo svolgimento dei pellegrinaggi che costituiscono da sempre uno dei più tipici esempi della devozione popolare locale, della spiritualità di cui è impregnata l’antica regione della Lucania, delle radici profonde di una cultura che si esprime con canti, gesti e ritualità tramandate nei secoli.
“Salire al Monte” non è solo l’esercizio pratico e faticoso di un percorso in salita, ma è il simbolo dell’ascesa fiduciosa verso il divino, in un cammino che è già purificazione e che, nel nostro caso, è animato dalla speranza, anzi dalla certezza, dell’amorosa accoglienza della Madre di Dio, faro che illumina la strada del fedele (la Theotòkos e l’Odigitria, appunto, dei monaci bizantini). D’altronde, arrivare sul Gelbison o Monte Sacro (i due nomi, in sostanza, indicano la stessa cosa da due punti di vista culturali e valoriali diversi: la sacralità del luogo) è stato sempre particolarmente difficoltoso, essendo le strade di accesso poco più che viottoli, in sostanza delle mulattiere da percorrere a piedi o al massimo, appunto, a dorso di mulo e cavallo. Strade di montagna antiche, per loro natura scomode, e ancora di più secondo i nostri moderni parametri; ma era proprio quella scomodità a dare al pellegrinaggio il suo senso, quello di un tempo lento, di sacrificio e di pentimento. Solo nel Novecento, in particolare nella seconda metà di quel secolo, si è iniziato a costruire una strada adatta ai nostri veicoli motorizzati – grazie a don Salati e, soprattutto, agli sforzi e alla tenacia di don Troccoli –; strada con la quale abbiamo guadagnato tempo e aggiunto comodità, ma perso in larga misura il senso antico, tutto interiore e comunitario, dell’ascesa al Monte. Lungi da noi disconoscerne l’epocale utilità, ma è indubbio che essa abbia contribuito non poco a renderci più turisti e meno pellegrini.
In passato il santuario si apriva il martedì dopo Pentecoste per chiudersi il 18 novembre. Forse si tratta di date ereditate dai Celestini o dai Bizantini, anche se questi ultimi è probabile rimanessero sempre sulla cima mentre i primi, d’inverno, scendevano nel loro monastero di Novi Velia. Tra le due date, la prima è certamente quella col maggior fascino perché ricordava il giorno in cui, nel 431, il Concilio di Efeso aveva proclamato solennemente la maternità divina di Maria, conferendole quel titolo (Theotòkos) che era tra i preferiti dai monaci orientali. Mentre la seconda, sostiene Ebner, era riferita al giorno in cui si commemora la dedicazione delle basiliche romane dei santi Pietro e Paolo. Nel 1924, mons. Cammarota spostò la chiusura alla seconda domenica di ottobre, constatando che già a settembre i pellegrinaggi diminuissero rapidamente fino ad annullarsi. Non è improbabile che la data di chiusura precedente fosse legata, invece, all’usanza dei Celestini di rimanere il più possibile vicino alla Madonna. Don Petraglia, nel suo libro sul santuario del 1933, scrive che essi “più che attendere i pellegrini, vi dimoravano [sul santuario] per sentimento proprio, e godevano anzi di rimanersi solitari, come in un romitaggio, ai piedi della Sacra Immagine fino all’estremo limite dell’autunno, fino a che la neve, da suprema dominatrice, invadeva la prediletta e loro dolce dimora”.
Apertura del Santuario della Madonna del Monte, maggio 2024
In ogni caso, la faccenda ci fa capire che l’apertura e la chiusura del santuario non sia una mera questione cronologica, ma abbia a che fare con un tempo sacro nel quale lo straordinario irrompe nel consueto, nel quotidiano, e lo trasforma in tempo di grazia. Si tratta di una sorta di ciclico ritornare della stagione di Maria, quando si rende più evidente la sua protezione sul territorio in cui è considerata la prima delle “Sette Sorelle”.
A tal proposito, questa è una credenza religiosa popolare un tempo molto radicata nel Cilento, ma diffusa in varie altre zone soprattutto del Meridione italiano. Amedeo La Greca scrive: “Abitano i monti, sono vicine alle stelle, abbracciano i fedeli e pellegrini che a loro ricorrono per essere protetti nelle traversie della vita. Amate, invocate, benedette, venerate, nell’immaginario collettivo religioso del popolo vivono nei loro santuari e rappresentano la sacra cinta che, come un baluardo, difende tutti, credenti e non, dalle insidie del Maligno. Sono le Sette Madonne Sorelle: così i Cilentani riconoscono i principali sette titoli di culto locale della Vergine”.
Su quali siano queste “Sorelle” non c’è accordo. Oltre a quella del Monte Sacro, per La Greca le altre sono: la Madonna del Granato, a metà circa del monte Calpazio; la Madonna della Stella, sul monte omonimo; la Madonna di Pietrasanta, su una propaggine del monte Piccotta che dà sul golfo di Policastro (S. Giovanni a Piro); la Madonna della Neve, sul monte Cervati; la Madonna dei Còrdici, presso Torraca; la Madonna del Monte Vivo, su una balza del monte Motola, presso Piaggine. L’antropologo Domenico Ienna, però, sostituisce le ultime due con la Madonna del Carmine, sull’omonimo monte presso Catona, e con la Madonna della Civitella, sull’omonimo monte presso Moio (della Civitella).
Non sappiamo a chi dar ragione, anche perché l’incertezza è dovuta al fatto che ogni comunità vede nella “sua” Madonna di montagna quella più importante che non può non appartenere al gruppo delle “Sette”. E forse non è neanche importante, dal momento che la tradizione è intesa a rimarcare la diffusa presenza di Maria sul territorio soprattutto con i suoi santuari montani o di collina, a formare una corona, una costellazione, un manto di protezione sul Cilento. Quella “sacra cinta” di cui alla citazione che, ieri più di oggi, era davvero avvertita come uno scudo a difesa dal male.
Le origini, la storia, le tradizioni, i culti di queste Madonne e dei loro santuari hanno le stesse caratteristiche, sono variazioni sul tema del rinvenimento dell’immagine sacra, della volontà divina di ricevere il culto in un sito specifico, dell’abbondanza di miracoli, guarigioni e conversioni. In ultimo, si può dire che sono tutte manifestazioni dell’Odigitria bizantina, che per noi cattolici è l’Assunta. Non a caso, quasi sempre il giorno di maggior festa è ovunque il 15 di agosto.
L’antica e ormai quasi perduta storia-leggenda delle “Sette Madonne sorelle” è uno di quegli elementi che rende il Cilento “arcaico”, “sacro”, “magico”.
Bella sintesi per il periodo post medievale ma richiede qualche aggiornamento in merito delle libert`q e rispetto dato al monachesimo italo-greco prima e dopo 1054 (come a San Batolomeo di Rossano) e le continuate confermazioni dei diriti del rito e disciplina greco dei monasteri italogreci particolarmente nel Salernitano dai principi normani di Salerno e della casa reale a Palermo.. Manca anche una fonte primaria e attendibile che verifica la popolare l’ipostesi non validamente fondata che i saraceni chiamavano Monte Sacro Gelbison. Bisogna consultare anche la bibliografia internazionale dalle scorse 30 anni che documenta con diplomi normanni/Svevi un aggiornato inquadramento della colonizzazione italo-greco nel meridione e la politica ecclesiastica del regno Normanno-Svevo. La moderna ricerca ci permette di non essere costretti di formulare solo dubiosi ipotesi e di sfatare certi vecchie ma popolare ipotesi.
Grazie del suo commento critico e stimolante. Se ho capito bene ciò che intende, il mio testo le sembra poco documentato e scarsamente attento alla bibliografia più aggiornata, anche straniera. Questo soprattutto per quanto riguarda il corretto inquadramento della presenza e del ruolo degli italo-greci nel Salernitano. Le sembrerà strano, ma le do ragione! Il problema è che non era mia intenzione scrivere un saggio specialistico con note contenenti riferimenti a documenti e libri più o meno recenti, ma un racconto leggibile e “popolare”, abbastanza tecnico ma non troppo; insomma, qualcosa per leggere la quale non occorre una laurea o esperienze di ricerca in archivio, ma semplicemente un certo interesse per la storia, la cultura e le tradizioni locali. D’altronde, questo è l’intento del blog, come facilmente potrà rendersi conto leggendo gli altri articoli.
In ogni caso, sia il riferimento al monachesimo bizantino sia quello alla vera origine del termine “Gelbison” sono volutamente posti al condizionale. Si tratta, cioè, di ipotesi anche se abbastanza credibili. Non mi sembra che esse siano state smentite del tutto dalla bibliografia cui lei accenna genericamente, che io non cito perché il testo non era destinato a una rivista accademica di storia.
Grazie per l’accurata ricostruzione. In merito all’etimologia, è importante precisare che “sanam” in arabo significa “idolo” o “immagine idolatrica”. Questo termine era ampiamente utilizzato nell’epoca preislamica, conosciuta come Jahiliyyah, quando le tribù arabe veneravano oggetti di culto pagani. Con l’avvento dell’Islam, a partire dal VII secolo, l’adorazione degli idoli fu progressivamente abbandonata, e il termine “sanam” venne associato a pratiche religiose stigmatizzate. Sebbene sia rimasto nel lessico arabo, il suo uso si è ridotto principalmente a contesti religiosi o storici legati agli idoli preislamici, perdendo così rilevanza nella vita quotidiana.
Pertanto, se “Gelbison” derivasse da questo ceppo linguistico, e contestualizzandolo anche in relazione alle invasioni saracene, l’oronimo dovrebbe apparire in epoche precedenti a quando inizia a comparire nei documenti storici. Al contrario, l’ipotesi germanica formulata dall’archeologo e antchista Luigi Vecchio, trova un contesto strutturato e ampiamente confermato, ossia quello delle ferriere. Ciò non toglie nulla alla sacralità del luogo o all’importanza del santuario. È fondamentale sottolinearlo a favore di quanti ci leggono e potrebbero fraintendere l’intento di chi approccia il tema con un metodo storico. Comprendere la vera storia — o quanto meno tentare di farlo — non fa che rafforzare la conoscenza del passato e il senso di appartenenza.
In questo contesto, è opportuno notare che don Carmine come don Luca, rispettabili figure ecclesiastiche, non avevano conoscenze approfondite né dell’arabo né dell’etimologia, così come l’autore anonimo della nota su “La Rassegna Cattolica”, che sbaglia anche la citazione in arabo. Pertanto, non possono più essere considerati referenti sul tema. Senza voler sminuire il loro operato ecclesiastico, come si dice dalle nostre parti, “na cosa nun bai cu n’ata”.
Sottoscrivo tutto ciò che dice. La sua critica costruttiva e, direi, istruttiva, è musica per chi fa un po’ di cultura. Seguendo il sito si sarà accorta che mi occupo in prevalenza di vicende legate alla storia contemporanea, con alcune incursioni un po’ più incerte nel medioevo e nell’arte. Naturalmente, non conosco l’arabo né ho particolare attitudine con l’etimologia delle lingue (a parte il testo omonimo di Isidoro di Siviglia!). Riferivo la paraetimologia tradizionale dell’oronimo “Gelbison” perché mi interessava evidenziarne l’uso fattone da quei rettori e dagli ecclesiastici in generale, derivato da autori dotti del ‘700 e dell’800, che spesso lavoravano di fantasia. Forse dal mio testo non emerge abbastanza questa lettura dall’interno di quel mondo, che giocava, e gioca, un po’ da rafforzativo della sacralità del luogo.
Per altri aspetti, può leggere i commenti qua sopra, uno dei quali si avvicina al suo. Infatti, è proprio il sig. Shano ad avermi gentilmente fornito il saggio di Vecchio.