Casale, Pesca e il “caso Moro”

Dal 16 marzo al 9 maggio 1978 l’Italia attraversa uno dei suoi periodi più difficili: sono i “55 giorni” della vicenda Moro. Dal rapimento all’uccisione del presidente DC, non è solo il mondo politico e istituzionale ad essere scosso e mobilitato, ma l’intero Paese. In quei due mesi si apre quello che sarà chiamato, nei decenni seguenti, il “caso Moro”, mai chiuso davvero. Tra indagini complesse, depistaggi di varia natura, collusioni, omertà, segreti di Stato, veri o presunti coinvolgimenti di mafia, servizi segreti e quanto di oscuro agisce nei turbolenti “anni di piombo” italiani, tra cui l’immancabile e onnipresente “banda della Magliana”; tra le indicibili verità democristiane, il gioco non sempre decifrabile dei rapporti tra i partiti della cosiddetta “prima Repubblica” e i condizionamenti interni del sistema dei blocchi in piena guerra fredda, la vicenda di Aldo Moro (e degli uomini della sua scorta, troppo spesso dimenticati) diventa uno dei, purtroppo, non pochi “misteri” della nostra storia repubblicana, un vero “buco nero” dei problemi irrisolti di quella storia, che si caratterizza però per una strana, eccessiva luce sui fatti e sulla loro interpretazione. Insomma, su quel “caso” ne sappiamo tantissimo, come testimonia l’abbondante pubblicistica coeva e successiva che non ha mai smesso di produrre materiale di ogni genere; eppure, al di là delle “verità processuali” e di quelle appurate con le inchieste parlamentari, non ne sappiamo nulla di definitivo. È vero che la complessità della vicenda e i numerosi attori coinvolti hanno scatenato ricostruzioni dietrologiche e ipotesi complottistiche di ogni genere, delle quali noi italiani – forse per difesa dal potere e sfiducia nei suoi confronti – siamo da sempre maestri. Ma noi, contemporanei degli eventi o immediati posteri di quei fatti tragici, continuiamo a doverci accontentare di una sorta di “verità mobile”. Forse la verità storica emergerà col tempo. A noi è data solo la possibilità di continuare ad indignarci ad ogni ricorrenza dei fatti.

Anno Santo 1975 (aprile), Mons. Casale incontra Paolo VI
Anno Santo 1975 (aprile), Mons. Casale incontra Paolo VI

Tracce non marginali di questa indignazione le ritroviamo anche a Vallo durante quei fatidici 55 giorni. Il 17 marzo – a un giorno dal rapimento – si svolge in paese una manifestazione di solidarietà voluta dal Comune e dalle forze politiche e sindacali alla quale si unisce anche il vescovo Casale. Tutti condannano la violenza – il che non è scontato in quei giorni difficili – e ribadiscono l’impegno in difesa delle istituzioni democratiche, mentre si augurano la liberazione dell’on. Moro e il suo ritorno all’attività politica. L’augurio cade nel vuoto e il 10 maggio – giorno seguente al ritrovamento del corpo di Moro – non resta che celebrare in cattedrale una messa di suffragio. Mons. Casale, che ha seguito la vicenda con apprensione, pronuncia in quell’occasione una commossa omelia. Il bollettino della curia ne dà conto. Da lì la recuperiamo per intero:

“Da quel tragico 16 marzo abbiamo vissuto lunghi e drammatici giorni nell’attesa di una risposta umanitaria alle numerose e autorevoli voci che chiedevano la liberazione dell’On. Moro. La risposta, invece, è venuta ieri: fredda, implacabile spietata. Il corpo esanime dell’On. Moro è stato ritrovato nel bagagliaio di un’auto, parcheggiata nel pieno centro di Roma, della capitale del nostro Paese, a poca distanza dalle sedi in cui si dirige la vita politica della Nazione. Gli assassini si aggirano, dunque, nelle nostre città, sfidano autorità e controlli, colpiscono senza alcuna pietà. È, questo, l’aspetto pauroso di una civiltà che ha ucciso l’uomo; di una civiltà che ha trasformato le nostre città in una giungla, nella quale al rapporto vivo, umano, interpersonale è subentrata la paura, che spinge ad isolarsi o a reagire con la violenza alla violenza. Perciò ci sentiamo di affermare che in Aldo Moro non si è assassinato soltanto l’eminente uomo politico, l’affettuoso padre di famiglia, il cristiano serio e consapevole, l’infaticabile militante di tante battaglie democratiche. In Aldo Moro si è ucciso l’uomo.

Mons. Casale in un convegno con Mario Agnes, presidente nazionale A.C.(10 giugno 1978)
Mons. Casale in un convegno con Mario Agnes, presidente nazionale A.C.(10 giugno 1978)

Ognuno di noi sente nella sua carne la ferita profonda di un assassinio che ci tocca tutti, ci coinvolge tutti e ci impegna a fare un serio esame di coscienza. Ognuno di noi si sente dolorosamente colpito dalla follia omicida e reagisce con la ferma condanna della violenza. Ma, il rifiuto deciso ed intransigente di ogni violenza non può rimanere affermazione retorica; né ridursi a sentimento emotivo. Riusciremo a vincere la violenza che insanguina le strade del nostro Paese, se ne ricercheremo ed elimineremo le cause.

Chi sono e da dove vengono i gruppi armati che preparano con lucidità i loro piani di eversione? Essi costituiscono il sintomo pericoloso di un più vasto malessere, che è largamente diffuso, soprattutto tra i giovani. Accanto ai brigatisti rossi noi vediamo la moltitudine inquieta dei giovani disoccupati, dei laureati in lista di attesa, degli emigrati costretti a vivere nei suburbi delle città, facile preda dell’estremismo rivoluzionario. Le radici della violenza sono ramificate e piantate nel tessuto di una nazione che, nonostante l’innegabile progresso economico e sociale, vede ancora irrisolti problemi di importanza fondamentale.

A questo punto della nostra riflessione, la ricerca delle cause della violenza ci conduce necessariamente a denunziare le gravi carenze di una società che ha creduto di poter risolvere tutti i suoi problemi negando Dio e divinizzando la scienza, la tecnica, la razza, il sesso. L’esplosione di violenza che ci sta facendo inorridire, è il punto di arrivo di una violenza quotidiana, fatta di mancanza di rispetto per l’altro, di continue violazioni della giustizia e delle solidarietà.

La violenza, dunque, nasce soprattutto dall’oscuramento e dalla negazione dei valori dello spirito, da una esasperata ed egoistica ricerca del benessere economico ad ogni costo. Senza la fede in Dio e senza l’accettazione dei valori di onestà, di giustizia, di fraternità, che su Dio si fondano, l’uomo si ritrova in balia degli istinti più pericolosi, che spingono alla distruzione e alla rovina.

Ci siamo riuniti per innalzare a Dio una preghiera: di suffragio per il nostro fratello Aldo Moro e per i tutori dell’ordine morti nell’adempimento del loro dovere; di conforto per le famiglie duramente provate nei loro affetti. Ma, la celebrazione eucaristica, mentre ci invita a saper scorgere, al di là della morte, il traguardo della vita eterna con Dio, ci impegna a saper ripetere il gesto di Cristo. Il Suo gesto dà significato e valore al sacrificio umano. La vita non è e non può essere soltanto ricerca egoistica di beni materiali. La vita è risposta ad una chiamata di Dio che ci vuole solidali, pronti a donarci agli altri per la crescita integrale della società. Proprio nel momento in cui la paura può attanagliare il nostro spirito e condurci a rinchiuderci in noi, la speranza cristiana ci sospinge sulle vie di un generoso impegno per il bene dei fratelli”.

Con efficacia e partecipazione, l’ordinario diocesano ripercorre gli eventi, col loro carico di tragedia e di speranza, e ne cerca le cause meno immediate, più profonde che consentano di combattere quella insensata violenza. Il suo, al solito, è un discorso che unisce la parte più propriamente religiosa a quella sociale, o sociologica. In esso possiamo avvertire ancora l’eco del clima di quel tempo, la costernazione dei presenti, i tentativi della Chiesa di trovare, se non una soluzione, almeno una chiave di lettura di quegli anni violenti.

L'on. Aldo Moro in un comizio a Vallo. Anni '70 (foto Del bello dell'antico e del curioso sulla città di Vallo della Lucania, CPCC, Acciaroli, 2000)
L’on. Aldo Moro in un comizio a Vallo. Anni ’70 (foto Del bello dell’antico e del curioso sulla città di Vallo della Lucania, CPCC, Acciaroli, 2000)
Il corpo di Moro ritrovato in Via Caetani, 9 maggio 1978 (Foto Ansa da Autobiografia di una nazione, a cura di L.Criscenti e G.D'Autilia, Editori Riuniti, Roma 2000)
Il corpo di Moro ritrovato in Via Caetani, 9 maggio 1978 (Foto Ansa da Autobiografia di una nazione, a cura di L.Criscenti e G.D’Autilia, Editori Riuniti, Roma 2000)

Tanti i libri che ricostruiscono e interpretano quella vicenda di 44 anni fa, raccontandone ogni tipo di retroscena, diffondendosi sul “prima”, sul “dopo”, sul “come”. Non c’è solo saggistica, ma anche qualche romanzo. Tra questi, vi presentiamo quello di un amico, scritto in occasione del quarantennale. Ne parlammo già qualche tempo fa, poco dopo la sua pubblicazione. Oggi, quella recensione non sembra granché invecchiata; quindi, sperando sia ancora interessante, ve la riproponiamo. È anche un invito alla lettura.

Sorprende non poco questo piccolo libro, uscito qualche anno fa con perfetto tempismo. Forse, si è un po’ perso fra le tante pubblicazioni apparse in occasione dei quarant’anni della vicenda Moro, l’affaire più drammatico della storia italiana dell’ultimo dopoguerra; ma di certo è meritevole di una lettura attenta e consapevole.

È un romanzo, e come tale la storia si dipana secondo un’abile regia in cui il protagonista si muove su uno scenario di segreti, di ricordi e vicende familiari, ma è anche qualcosa di diverso, un viaggio nella notte più buia della Repubblica, per usare l’efficace espressione di Zavoli.

Romanzo storico in cui, purtroppo, molte cose non sono inventate, in cui la fantasia dell’autore si confronta di continuo con una storia che appare inverosimile per la sua complessità e i suoi punti oscuri. Insomma, la materia su cui Antonio Pesca lavora è vera ed è ancora viva, eppure è più incredibile di un romanzo.

Il protagonista, Giovanni Parente, a vent’anni dal “caso Moro”, ripercorre i drammatici “55 giorni” tra il rapimento e l’uccisione attraverso gli articoli di Fernando, giornalista del torinese “XX secolo” e, soprattutto, suo padre. Il dramma nazionale si intreccia con quello personale e familiare del giornalista d’inchiesta piemontese che, dopo averne seguito gli sviluppi di cronaca, a pochi giorni dal ritrovamento del cadavere di Moro, si suicida nelle acque del Po, in maniera inspiegata e apparentemente incomprensibile agli occhi dei suoi e a quelli di suo figlio Giovanni, allora un bambino di otto anni.

È il dramma del bambino del ’78 ad essere ripercorso dall’uomo del ’98. Giovanni vuole sapere il perché di quel gesto disperato, vuol conoscere i motivi per i quali lui e la sua famiglia hanno visto spezzate le loro vite, hanno vissuto nel dolore, acuito dall’assenza di un motivo. Così, il protagonista entra in quei vorticosi giorni, si cala nella lettura dei servizi del padre, spesso allusivi ed enigmatici, vive il clima oppressivo di quella quotidianità. Quel clima è ben reso dalla trovata dell’autore di far coincidere i tempi del romanzo con quelli della vicenda di Moro di vent’anni prima. Giovanni Parente, infatti, si muove tra il marzo e il maggio del ’98, in parallelo alla cronaca temporale che va dal rapimento all’uccisione del presidente DC. Durante quei due mesi, le scoperte che fa, leggendo i numeri del giornale dell’epoca e incontrando vari personaggi implicati in modi differenti nella storia giornalistica del padre, sono sempre più incalzanti fino al climax finale, racchiuso nelle ultime dieci pagine.

Il percorso del protagonista verso la conoscenza dei fatti e delle loro molteplici implicazioni è, in realtà, il modo attraverso il quale l’autore pone alla nostra attenzione le tante incongruenze del rapimento, della detenzione e dell’omicidio di Moro. Passano sotto i nostri occhi lo scenario di via Fani, insolitamente “affollato”, il mistero di via Gradoli, i documenti trovati nel covo di via Monte Nevoso a Milano, e tanti altri tasselli della storia di quegli anni tutti connessi eppure difficili da tenere uniti. Traspare da ciò il lavoro di documentazione dell’autore, di certo non minore rispetto a quello fatto recitare al protagonista Giovanni.

Un giallo fantapolitico, quello scritto da Antonio Pesca. La soluzione c’è, ed è – come nella migliore tradizione del genere – posta nel finale. Giovanni trova la risposta che cercava. Non il nome di un assassino che non c’è, ma le ragioni di un suicidio, tutte interne alla logica della storia, non solo quella del delitto Moro ma quella più ampia della “strategia della tensione”.

Quella risposta è amara al punto che Giovanni, dopo averla trovata, lascia l’Italia, un luogo senza redenzione. Poco prima aveva letto le ultime parole scritte dal padre: “Ci sono posti della terra dove chi vive nella verità, e nell’onestà, si sente a casa. Tra questi posti, però, non c’è l’Italia” (p. 110). E prima ancora, la confessione paterna era stata ancora più dura: “La più grande delusione è l’aver creduto che, raccontando la verità, avrei servito il mio Paese, rendendolo libero. Invece, quelle verità, mi hanno reso solo un uomo morto. Insomma, la mia sconfitta è aver creduto che esistessero un popolo e una patria” (p. 108).

Parole importanti e pesanti funzionali alla trama del romanzo, ma utilizzate anche per scuotere il lettore, costringerlo ad interrogarsi. Dure come un pugno nello stomaco e volte a far interagire finzione e realtà. Chi legge è velatamente indotto a pensare che la storia italiana degli ultimi decenni sia stata un gioco di specchi, un “teatro dell’ipocrisia”, perché “il potere non si regala al popolo, ancor meno a un non popolo come il nostro. L’unica concessione è l’illusione, creata in un grande palcoscenico, dove campeggiano le parole democrazia e libertà, e dove il reale diventa irreale lasciando che la finzione sostituisca la realtà” (p. 108).

Non vorremmo aver dato l’impressione che si tratti di una sorta di documentario scritto, pesante alla lettura e pedante nel sollecitare riflessioni politico-morali. No, il libro è un romanzo e come tale si legge in modo scorrevole e con gusto. Nelle poco più di cento pagine il ritmo è incalzante e tutto si muove verso le rivelazioni finali, anche con un piacevole enigma da spy-story quando il protagonista è chiamato a decrittare il messaggio del padre per aprire la fatidica cassetta con i documenti scottanti.

Lo stile è buono e non privo di qualche preziosismo. Buoni anche i dialoghi e le descrizioni d’ambiente, con quella Torino primaverile che fa da scenario al dramma interiore. Il protagonista è ben delineato – anche se ciò che interessa all’autore è il suo passato, la sua curiosità e il suo mondo interiore – e vive anche una sua quotidianità di lavoro e di relazioni. Forse, la storia sentimentale con Elena avrebbe meritato più spazio, apparendo appena abbozzata, così come la stessa figura della donna, molto, troppo evanescente. Uno sviluppo maggiore e un ruolo meno marginale del rapporto tra i due avrebbe certamente reso più equilibrato l’intreccio narrativo senza appesantire il testo.

Anche la chiusura appare sbrigativa. Giovanni Parente vola via dal suo Paese ed è un viaggio senza ritorno. Il segreto del padre ha messo in pericolo anche la sua vita. Lui sceglie di salvarsi e i dossier trasmessigli in eredità dal padre – con le loro indicibili verità – finiscono anch’essi “nelle tranquille acque del Po”. Come aveva scritto Fernando, “ci sono cose preziose della vita, insieme alla verità, che solo il fiume può salvare!” (p. 31). Dunque, il vero protagonista sembra essere il Po, che, col suo placido scorrere, custodisce i segreti della turbolenta vita torinese e italiana. Ma quella fuga, se vuole essere una denuncia civile, finisce con l’apparire una sorta di rinuncia alla lotta e, per certi aspetti, quasi un tradimento, un voltare le spalle al suo Paese, a quel “popolo senza memoria e senza sovranità” (p. 110). Ma – dimenticavo – è solo un romanzo, ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti, o esistite, è puramente casuale. O no?!

Author: manlio morra

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