Se il 1921, il ’29 e il ’48 sono date importanti per la sanità locale, lo è ancora di più il ’56: anno di apertura dell’ospedale “San Luca”.
La data è, al tempo stesso, un punto d’arrivo e di partenza. Infatti, per coglierne il significato bisogna spostarsi nel tempo fino ad arrivare a circa cinquant’anni prima, quando un prete locale, il can. Luca Petraglia, rettore del Santuario del Monte Sacro di Novi Velia, comincia a concretizzare la sua idea che espone nel primo numero della rivista Charitas, pubblicata apposta per raccogliere fondi:
“Un’ardimentosa idea da sempre vagheggiata mi riscalda la mente e il cuore. Quest’idea è la fondazione di un ospedale in queste terre lucane, in beneficio degli infermi poveri”.
Siamo nel 1911, le cliniche di cui si è detto nella prima parte dell’articolo sono ancora lontane anche dall’essere immaginate, don Luca vagheggia un ricovero per i poveri, cioè una prima forma di assistenza medica per la stragrande maggioranza del popolo, allora fatto in prevalenza di contadini e artigiani sempre al limite della sopravvivenza. La raccolta avviata col suo giornale sarà lenta e difficoltosa, incontrerà subito l’ostacolo della guerra mondiale, poi quello del fascismo, per i contrasti mai sopiti con la sezione locale del Fascio di combattimento, e sarà sempre caratterizzata da restrizioni e dalla necessità di continui appelli e sollecitazioni a donatori privati e organi istituzionali. Nonostante ciò, don Luca già nel 1913 acquista dagli Stasi un terreno lungo la via Nazionale e pone la prima pietra dell’edificio. Passata la guerra, comincia a costruire, ma la fabbrica si ferma più volte e definitivamente nella seconda metà degli anni Trenta. I soldi sono finiti e l’intraprendente canonico avvia un’altra iniziativa, ancora un giornale, Il Samaritano, per raccogliere altre offerte, che arrivano, anche durante gli anni della nuova guerra, ma non consentono lo stesso di completare l’edificio.
Quando don Luca muore, nel ’47, l’ospedale non è pronto pur essendo in gran parte realizzata la sua struttura fisica. Ci sarà bisogno di altri due preti, don Alfredo Pinto e don Pietro Guglielmotti, per farlo diventare un ente, portare a termine i lavori e, finalmente, aprire ufficialmente l’ospedale “San Luca”, che riprendeva il nome del suo ideatore rispettandone le ultime volontà:
“L’ospedale fu inaugurato solennemente il 20 dicembre 1956, alla presenza del Prefetto di Salerno, del Vescovo Mons. Biagio D’Agostino, dei rappresentanti della Provincia di Salerno e di molte altre Autorità civili, militari e religiose. Al momento dell’inaugurazione l’ospedale disponeva di cinquanta posti letto”.
In realtà, da circa due anni, nella struttura in via di completamento era già in attività un poliambulatorio dell’Inam, che occupava i locali disponibili e che era stato ospitato fin dal ’50 nell’edificio del Conservatorio di “S. Caterina” attraverso una convenzione tra l’istituto mutualistico e don Alfredo Pinto, presidente degli “Istituti riuniti Pinto e S. Caterina”.
In ogni caso, da quel ’56 inizia la nuova storia della sanità pubblica a Vallo e nel suo ampio territorio. L’esistenza di un ospedale che cura gratuitamente i suoi pazienti, anche se attraverso un sistema di “Casse mutua” che solo alla fine degli anni ’70 diventerà il Servizio Sanitario Nazionale, rende più difficile la vita alle cliniche private che, per loro natura, erano state e continuavano ad essere a pagamento, curando i poveri solo dietro rimborso delle spese da parte del Comune. È probabile che questo sia stato uno dei fattori che avrebbero portato, da lì a qualche anno, alla chiusura di due delle tre strutture esistenti.
Negli anni in cui ne è responsabile il can. Guglielmotti, il “San Luca” si ingrandisce di molto e lo farà ancora di più nei decenni successivi. Nel volume questa evoluzione, che porta il piccolo fabbricato iniziale a diventare l’odierna grande struttura, è seguito punto per punto anche con un’ampia documentazione fotografica.
Interessante il rilievo che dà conto delle dinamiche messe in atto dall’apertura:
“Oltre a rappresentare un essenziale presidio per la salute dei cilentani, da quel momento l’ospedale fu anche la base per il decollo economico del territorio, in particolare di Vallo della Lucania, non solo perché offriva a molti una professione e un posto di lavoro, ma anche perché stimolava l’imprenditoria locale, specie quella edile. Inoltre permetteva a molti medici locali di non spostarsi e ai professionisti di occupare i Quadri direttivi del nosocomio sia in campo amministrativo che sanitario”.
Sorvoliamo sull’elenco dei dirigenti, dei medici, degli impiegati tecnici e sanitari, su cui peraltro il libro si sofferma in abbondanza, e anche su quello delle religiose, le “Suore della Carità di Santa Giovanna Antida”, che svolsero un ruolo importante, soprattutto agli inizi, quando la gestione interna della struttura era improntata sul risparmio, sul rapporto personale con i pazienti e, più in generale, su uno spirito di familiarità e solidarietà. A questo proposito, i ricordi dei tanti che hanno lavorato nella struttura sono assai significativi.
Una delle prime assunte nella struttura, la signora Giovanna Agresta, ricorda che, al momento di prendere servizio, don Guglielmotti “mi avvisò che avrei dovuto svolgere qualsiasi attività richiesta agli inservienti dell’ospedale, dalla sistemazione dei cadaveri all’allevamento delle galline, dalla pulizia dei locali al bucato a mano delle lenzuola, che nel vecchio fabbricato si faceva al piano terra, in un angusto e buio locale dov’erano installate della vasche di cemento”. E aggiunge che “era molto vivo il cameratismo fra colleghi, la perseverante dedizione al lavoro e il rigoroso evitare ogni sorta di spreco”.
Il signor Domenico Guzzo, un altro impiegato assunto negli anni ’60, scrive: “Mi piace ricordare il grande spirito di collaborazione che esisteva fra noi, al punto da scambiarci le mansioni nel caso qualcuno mancasse o fosse troppo impegnato. Poteva succedere infatti che, da infermiere, sostituissi l’addetto alla pulizia dei pavimenti. In verità, nessuno escluso, davamo tutto all’ospedale, e senza che ci fosse riconosciuto lo straordinario, lavorando ben oltre la fine dei turni”.
Anella Tangredi, assunta come portantina, ricorda che, nello spirito di risparmio dell’epoca, dava anche una mano in cucina: “Allevate in un grande pollaio sotto la scarpata sulla cui sommità corre via Torrusio, a volte i pasti comprendevano anche uova e carne delle galline alimentate con gli avanzi di cucina”. Inoltre, continua, “aiutavo a lavare la biancheria che ogni mattina arrivava dalle corsie, dove le mie colleghe e gli infermieri pulivano e cambiavano gli ammalati”.
Il primo a fare e richiedere sacrifici e risparmi era il presidente Guglielmotti, che spesso provvedeva di persona alla spesa, si riforniva di frutta e verdura dai contadini locali, controllava il materiale sanitario, esigeva un rigoroso risparmio energetico chiedendo a tutti, ad esempio, di fare attenzione nel non lasciare lampade inutilmente accese. Anche i medici erano coinvolti in questo scrupoloso regime economico.
Il dottor Pantaleo Palladino, che prese servizio negli anni ’70 e fu anche direttore sanitario, ricorda che “erano anni eroici, quelli in cui l’ospedale prendeva forma arricchendosi di nuovi padiglioni e specialità cliniche, ma anche di aghi per le iniezioni ringiovaniti sfregando sul marmo del davanzale la punta consumata dall’uso. L’operazione era chiamata Ammollà. Gli infermieri, ancora assunti per chiamata diretta, spesso avevano nessuna o poca preparazione. Di conseguenza i loro compiti sanitari erano molto limitati, e sempre in presenza del medico. Erano per lo più impiegati nella pulizia di locali e biancheria destinati ai pazienti. Sotto la supervisione delle suore, alcuni dedicavano un po’ del loro tempo alla cura delle galline e dei maiali allevati sotto la scarpata della strada che conduce al cimitero. Carne e uova erano destinati agli ammalati. Consci dell’importanza che l’ospedale assumeva nei confronti della salute della popolazione, e delle attese che la gente nutriva verso quella nuova tanto auspicata realtà, i primi medici e infermieri furono quelli che più dei loro successori vi dedicarono ogni energia, senza badare a famiglia, profitto personale e incarichi di prestigio”.
Il dottor Vincenzo Filpi, anche lui entrato in servizio negli anni ’70 e divenuto primario di ginecologia, scrive: “Nel 1974 al San Luca funzionavano solo tre reparti, obbligatori per Legge per poter essere considerato regolamentare un ospedale: Medicina, con Primario il Dott. Gaetano Passarelli; Chirurgia, con Primario il Dott. Sapio; Ginecologia-Ostetricia, con Primario il Dott. Gaetano Luongo. Poco tempo dopo l’ospedale si arricchiva del reparto di Radiologia e del Laboratorio di Analisi, e attorno alla metà degli anni Ottanta, grazie al fattivo interessamento di Mons. Guglielmotti, del Presidente Rinaldi e di altri dirigenti, era quasi completo in ogni reparto”. Quanto al suo impegno, aggiunge: “L’attività di Ginecologia era sempre frenetica. Non era eccezionale portare a termine quattro o cinque parti al giorno, anzi a notte. Una volta mi lamentai con le partorienti del fatto che i nascituri attendessero la notte per venire al mondo. La risposta fu unanime e sorprendente: erano stati concepiti di notte!”.
I ricordi e le testimonianze sono molto più numerose, ma per quelle dei dott. Spiotta, Fusco, Di Scianni, Autieri, Carlone e di tanti altri non possiamo che rinviare al volume che, proprio per questa abbondante presenza di interventi personali, è esso stesso un documento prezioso ed assume il valore di un vero e proprio libro-testimonianza. Di esso, dobbiamo ringraziare l’autore, che non è un cilentano ma ama questa terra come, e a volte più, di noi, suoi smemorati abitanti.