Cento anni di sanità locale: storie di medici, preti, pazienti (prima parte)

Gli anni Cinquanta del secolo scorso sono il decennio d’oro della sanità vallese. In paese, infatti, operano tre cliniche private e, a metà circa di quello stesso decennio, inizia l’attività dell’ospedale pubblico “San Luca”. Oggi, di quelle quattro strutture ne rimangono due, molto cambiate rispetto alle origini.

Di questa storia, che è anche storia della società e della pietà religiosa, si occupa un libro uscito, purtroppo, in piena pandemia e, forse per questo, passato quasi inosservato. Si tratta del volume La struttura sanitaria a Vallo della Lucania scritto e curato da Lodovico Calza.

L’autore è già conosciuto in ambito locale per le sue numerose ricerche su tematiche storiche legate al nostro territorio. Ricordiamo solo il volume del 2011 sul bombardamento a Vallo del settembre ’43 e quello del 2017 sulla Grande guerra. Calza non è uno storico, ma un appassionato di storia; il che non è un male, anzi. I suoi testi sono sempre ricchi di dati, frutto di un’ampia ricognizione documentaria e compilati con scrupolo e grande partecipazione personale agli eventi presentati.

Come sempre, il documento più importante cui si ricorre in abbondanza è la testimonianza dei protagonisti. L’autore intervista o lascia parlare con loro scritti quanti hanno partecipato ai fatti oggetto della sua attenzione. In questo caso, pazienti, medici, dipendenti degli ospedali. È un metodo di cui spesso gli storici di professione diffidano, ma ha il merito di riempire vuoti documentari, recuperare voci e punti di vista altrimenti inattingibili, dare valore ad esperienze personali destinate a cadere nell’oblio con la scomparsa dei testimoni.

Nel 1921, apre in via Cafasso il “Policlinico Lucano”. È il primo in zona e i proprietari sono i fratelli Lettieri, entrambi medici. Il prof. Raffaele, docente di chirurgia alla Federico II, e il dottor Francesco, anch’egli chirurgo, sono originari di Gorga, frazione del comune di Stio, e impiantano la loro Casa di salute in una casa colonica di proprietà posta nella campagna poco fuori Vallo. L’iniziativa è soprattutto di Francesco, che diventerà per tutti “don Ciccio”, ex Ufficiale medico durante i terribili anni della guerra mondiale conclusasi da meno di tre anni. Come lui, molti sono i reduci che tornano dal fronte e, di questi, non pochi sono malati o hanno subito traumi di vario genere. Infatti, ben presto nasce in paese l’associazione dei mutilati e degli invalidi di guerra. È probabile – ipotizza l’autore – che sia stata proprio tale situazione a fare da sprone all’apertura della struttura sanitaria, del tutto innovativa per un territorio che aveva solo pochi e malpagati medici condotti.

La “Clinica Lettieri” rimase in attività per vari decenni, la sua struttura fu più volte ampliata e ristrutturata per far fronte alle esigenze della popolazione, vi operarono le prime suore presenti a Vallo, appartenenti alla congregazione delle “Suore d’Ivrea” ed ebbe come cappellano, negli anni ’50, don Giovanni D’Angiolillo, in seguito trasferitosi al “San Luca”. I due fratelli vi assistettero e operarono numerosi pazienti, tanto da essere considerati benemeriti della sanità locale. L’attività chiude nel ’59, alla scomparsa del dottor Francesco, mentre il prof. Raffaele, diventato nel ’53 onorevole, era già morto due anni prima.

Calza ricostruisce la storia dell’edificio, le vicende sanitarie, fa parlare vari protagonisti tra cui Antonella, la figlia del prof. Raffaele, ma soprattutto raccoglie testimonianze per ricostruire la presenza e l’attività del dottor Giuseppe Moscati, il più importante dei sanitari che operarono nella clinica.

Il futuro Santo arrivava da Napoli in treno il sabato per operare presso la Casa di cura dei Lettieri il giorno seguente: “Giunto a Vallo della Lucania dalla stazione, il dott. Francesco Sica riferisce che il Prof. Moscati solitamente era ospite a pranzo dei suoi nonni, Francesco e Maddalena. In quelle circostanze preferiva stare in cucina piuttosto che nel salone, come avrebbero desiderato i suoi nonni. Dopo aver pranzato, il Prof. Moscati si recava a dormire in un appartamento messogli a disposizione dai Lettieri in un palazzo in località Sasso, precisamente nell’attuale via Palumbo”. La domenica si recava in clinica, “prima però entrava nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, dove si fermava a pregare inginocchiato nel terzo banco, a sinistra della navata”. Moscati, già allora, era circondato da grande venerazione, “sia per i meriti professionali che per l’umiltà e la bontà con cui li esercitava”.

Ingresso palazzo in via Palumbo
Ingresso palazzo in via Palumbo

Il libro riporta varie testimonianze di discendenti di quanti lo conobbero. In tutte emerge la sua professionalità unita a una grande umanità: non solo non si faceva pagare dagli indigenti, ma non di rado era lui che “dopo la visita, lasciava discretamente a ciascuno di loro del denaro sotto il cuscino”.

Purtroppo, la sua attività a Vallo fu di breve durata. Moscati morì nel ’27. Aveva appena 47 anni. Il suo ricordo però è rimasto vivo e le pagine di questo libro contribuiscono a tenerne accesa la memoria.

La seconda casa di cura fu quella aperta nel ’29 dal prof. Leopoldo Cobellis insieme al figlio Eduardo. Aveva sede anch’essa in una casa colonica che esiste ancora lungo la Strada Statale 18 al termine del centro abitato di Vallo. Anche Cobellis era docente a Napoli e operava, soprattutto la domenica, nella sua clinica vallese. Diversi i medici attivi nella casa di salute: oltre al dott. Eduardo Cobellis, vi erano il prof. Alberto De Rosa, degli Ospedali Riuniti di Napoli, e il dott. Eligio Rubino, specializzato in pediatria.

Questa clinica è in attività fino agli inizi degli anni ’60, ma il prof. Leopoldo muore pochi anni dopo la sua apertura, nel ’35, lasciandone la gestione al figlio che, però, gli sopravvive pochi anni. Quando muore nel ’43, nella sua casa di Angellara, ha solo 36 anni. La clinica passa così nelle mani della moglie, la signora Marta Amodio, che ne gestirà le attività nei successivi decenni, divenendo celebre come “donna Marta”, conosciuta per cordialità e doti umane: “Ricordo la cucina – racconta una donna ricoverata presso la clinica – gestita da Donna Marta, cordiale e robusta, che quando era stagione serviva ai pazienti le gustose spremute ottenute dalle arance del vasto ortogiardino che si estendeva a valle della Casa di Salute”.

Infine, nei primi anni del secondo dopoguerra apre l’ultima delle strutture private di cui si occupa il nostro volume: la clinica del prof. Luigi Cobellis. L’ultima ad aprire – nel ’48 – ma l’unica a sopravvivere all’avvento dell’ospedale pubblico ed ancora oggi esistente.

Luigi Cobellis, nipote di Leopoldo, era attivo a Napoli negli anni Venti e Trenta presso la clinica del prof. Giovanni Pascale, e, come gli altri medici locali, tornava nel fine settimana in paese per operare nella clinica dello zio e a volte, svolgendo anche l’attività di ostetrico, presso le abitazioni delle pazienti. Il figlio Giovanni, anch’egli medico e – dall’83 al ’92 – parlamentare, a proposito del padre scrive: “Per garantire alla popolazione un Pronto Soccorso sempre aperto e un’assistenza chirurgica continua, nel 1948 decise di creare una sua Clinica, trasformando una casa colonica che garantiva diciannove posti letto”.

Quella clinica, nonostante le difficoltà dei primi anni, era destinata ad un grande successo. Infatti, poco tempo dopo cominciarono ad affiancarlo i due figli, Francesco e Giovanni, entrambi medici e docenti universitari, mentre la struttura sanitaria subiva numerosi ampliamenti e ristrutturazioni che avrebbero portato i 19 posti iniziali ad incrementarsi notevolmente, fino a diventare circa 100 in anni a noi vicini.

Il libro di Calza segue con grande precisione questi cambiamenti strutturali e funzionali che, col tempo, rendono la piccola clinica del dopoguerra un centro sanitario di eccellenza in ambito regionale, per attrezzature e competenze specialistiche.

Eppure, la figura del suo fondatore fu assai controversa. Luigi Cobellis era stato uno dei pochi antifascisti locali rimasti tali anche durante gli anni del regime. La sua ostinazione nel non prendere la tessera del partito, gli aveva impedito di accedere alla carriera universitaria già negli anni Trenta. Conseguirà la libera docenza a Napoli solo vent’anni dopo. La sua posizione politica gli procura non poche inimicizie con varie famiglie locali, ma alla fine del regime diventa il primo sindaco vallese del dopoguerra, sostenuto dagli Alleati (ospitò nel ’43 e nel ’44, nella sua casa di Angellara, il generale Clark, comandante in capo della V armata) ed eletto nel ’46 a quella stessa carica. Non riuscirà mai a diventare parlamentare, pur provandoci più volte, e forse questo suo impegno politico fu proprio la causa di contrasti e controversie che investirono le attività della clinica. Nonostante ciò, la casa di cura cresce, si trasforma, coinvolge gli altri medici della famiglia, altri specialisti che vi prestano servizio, fino ad arrivare all’attuale terza generazione di Cobellis; soprattutto, riesce a superare le difficoltà poste alle locali strutture sanitarie private dall’apertura dell’ospedale pubblico.

Author: manlio morra

1 thought on “Cento anni di sanità locale: storie di medici, preti, pazienti (prima parte)

  1. Un mese fa ci ha lasciato il Prof. Dott. Giovanni Cobellis, figlio del Prof. Luigi.
    In una giornata di luglio, come tante altre, assolata e immersa nell’accogliere l’imminente festa di San Pantaleone lo ha visto percorrere per l’ultima volta la sua Vallo, la sua Angellara.
    Da Vallo non se n’era mai staccato, nonostante gli impegni di Professore universitario prima, quelli di parlamentare poi e ancora quelli di Primario del reparto di Ginecologia a Salerno.
    Infaticabile, ogni lunedì, visite in Clinica.
    Un appuntamento fisso al quale era impossibile rinunciare.
    Molte le visite a cui seguivano anche solo coloro che desideravano solo salutarlo.
    I viaggi di ritorno a Napoli, vissuti come parentesi tra un lunedì e un altro.

    Chi non ha o avuto, almeno un conoscente, un amico, un parente che non abbia iniziato a lavorare in Clinica?

    La forza della Clinica?
    La familiarità: il parlare di salute con quella giusta dose di vicinanza che un ammalato vorrebbe solo e
    soltanto per poter affrontare meglio il dolore fisico senza per forza avere coraggio.
    Alla terza generazione, spetta, oggi proseguire così, come si è sempre fatto!

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