Attimi di “tempo ritrovato” sulle sponde del Sammaro

Non un romanzo né un’autobiografia, non un saggio sulla memoria né un documento su luoghi e abitudini d’altri tempi, eppure l’ultimo lavoro della scrittrice cilentana Maria Pia Lorenzo è un po’ di tutto questo e molto di più.

A seguire le sue indicazioni, si tratta di un memoir, cioè di un percorso nella memoria per ricostruire tracce del passato; un memoir d’amour, per essere più precisi, un memoriale che raccoglie esperienze, ordina ricordi, recupera emozioni vissute, immaginate, trasfigurate, ma che, soprattutto, si fa percorso di gratitudine per i luoghi dell’infanzia, per le persone che l’hanno popolata, per i personaggi più o meno reali che l’hanno resa viva e degna di ricordo.

Nell’opera, uscita qualche anno fa, dal suggestivo titolo Le mani dell’anima, l’autrice ci porta nel suo paese d’origine – Roscigno – e ci conduce per mano lungo le sue polverose strade nel dopoguerra, tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, quando la povertà era ancora tanta e lentamente il miracolo economico cominciava a lambire, con le sue lusinghe e i suoi miraggi di benessere, anche le desolate terre cilentane.

La Roscigno della Lorenzo è tanto reale quanto immaginata. Le stradine, i vicoli, le case, sono quelli veri da lei vissuti negli anni dell’infanzia e della prima adolescenza, ovviamente trasformati attraverso la forza della parola e dell’invenzione romanzesca, ma quel paese è, in realtà, una metafora per ritrovare quegli anni, usare la memoria come strumento per attingere il passato ma anche come vero luogo dell’anima; in definitiva, per rivivere quegli anni difficili, spensierati, duri, incantati, in cui tutto aveva il fascino del nuovo e la vita povera e semplice profumava di dignità e bellezza.

È Roscigno, ma avrebbe potuto essere qualunque altro paese cilentano e non. Se vi capita di leggerlo – e vi consiglio di farlo – fatevi trasportare da quel sapiente uso della nostalgia, velata di un sottile ma dolce rimpianto, che avvolge cose e persone, che trasfigura ambienti e paesaggi, e li deposita in quella terra di confine in cui sogno, realtà, fantasia, ricordo vivono insieme liberamente e senza contraddirsi. Forse è quello il luogo della vita vera; di sicuro lo è per i romanzieri, ma sospetto che tutti siamo potenziali abitatori di quel mondo, anche al di là di quanto siamo disposti a confessare. In fondo, ciascuno vive la sua vita costruendo la propria storia, raccontando il suo romanzo, impastando il presente col passato, il fuori col dentro, le azioni coi pensieri.

A proposito di memoria e degli strani giochi che intesse col tempo, c’è un che di proustiano in questo romanzo non romanzo, che mette in scena un pezzo vero di vita vissuta, preoccupandosi di recuperarne la verità emotiva più che quella fattuale, nella consapevolezza forse che è l’unico modo per rivivere quel passato. Rivivere non solo nel senso di “viverlo di nuovo” attraverso il gioco della memoria, o in quello di “ri-cordare”, cioè riportarlo vicino o dentro al cuore, ma nel senso, appunto proustiano, di “viverlo davvero per la prima volta”, perché colto nella sua essenza e vissuto interiormente attraverso l’arte.

Leggendo il testo è come ci si trovasse di fronte a tanti piccoli pezzi di “tempo ritrovato”, cioè rivissuto attraverso il meccanismo della memoria messo in moto da qualche elemento del presente. Proust, appunto, chiamava quel meccanismo “memoria involontaria”, capace di svelare il senso delle cose e di sottrarle all’oblio. Tutti ricordiamo l’episodio della madeleine inzuppata nel tè che resuscita il perduto mondo dell’infanzia del protagonista de La strada di Swann, passo tra i più celebri della letteratura d’ogni tempo. Ebbene, anche nel nostro caso sensazioni attivano quel meccanismo e aprono la scena del passato.

Lo spuntare “r vetaglie, piante erbacee rampicanti, all’inizio della primavera rimanda all’infanzia quando i bambini – e l’autrice-protagonista del memoir – raccoglievano quelle piante per farle usare alle mamme in cucina, ma si estende alle “voci dei vicoli” popolati di donne, anziani, ragazzi che animavano un “teatro vivente all’aperto” al quale partecipavano anche gli animali, in special modo le galline razzolanti liberamente negli spazi comuni e, non di rado, nelle case dei vicini. Gustosa la scena del litigio tra Tulietta, za Elisa, Ninetta e la madre provocata proprio dalla conta delle galline all’imbrunire che fa sospettare alla prima che tra le donne del vicinato ci sia “’na mariola r addìne”.

L’autrice chiama “voci dell’anima” quei momenti di memoria involontaria che squarciano il tempo. Così, lo scroscio dell’acqua nel lavandino otturato di una mattina qualunque fa comparire l’immagine della madre intenta nella stessa operazione di liberare il lavandino di casa e a gridare alla figlia: Marì! Marì! Curr, va’ a la casa r za Maria e fatt ra lu ssupplatùr!

La richiesta perentoria di procurare lo “sturalavandino”, oggetto indisponibile in paese e perciò da acquistare necessariamente in città, apre una gustosissima scena di vita quotidiana in cui la protagonista, attraverso l’umile aggeggio cittadino regolarmente prestato dalla zia e rotto dalla foga della madre, impara dalla lezione di gentilezza e pazienza offerta da “za Maria” che “l’amore ha sempre un prezzo”. La zia, infatti, prevedendo le reiterate richieste del parentado sprovvisto dell’oggetto e per nulla turbata dal maldestro utilizzo che ne provoca la rottura, aveva acquistato uno “ssupplatùr” di riserva a Salerno, nascondendolo anche al marito, e può quindi rassicurare la piccola protagonista, turbata dal dover restituire l’utensile rotto e infastidita dall’irruenza e dall’invadenza materna (“– zia Marì, mamma ‘a rutt lu ssupplatùr e quànn zi Nanni vai a Salièrn te lu fàce accattà,dice la bambina imbarazzata davanti alla zia, che risponde serena e complice: – Uè, Maruzzè, non fa sta faccèlla! io tèngo nat ssupplatùr ma nu’ dice niente a màmmeta ca se no me ropp pure chìst! ricìm ca io e te tinìm ‘nu segrèto”).

Le “voci dell’anima” sono sempre in azione, a scatenarle può essere il profumo del bucato steso al sole, che rimanda all’antico odore della liscivia e alle lavandaie di paese con i loro sospiri d’amore, o lo svolazzare delle foglie del tardo autunno, che restituisce il dolore inspiegabile della morte di Vincenzina, piccola compagna di giochi portata via come foglia al vento in una giornata di fine novembre.

Ma tutto è memoria e volontà di sottrarre all’oblio pezzi di passato. Così in ogni pagina si attiva il ricordo della vita dei vicoli, spesso di quella via Alighieri dove si svolgevano gran parte delle avventure quotidiane della piccola protagonista tra giochi poveri, quali il tuppi tuppi, mazza e pieuz (per i maschietti), lo sciùvila sciùvila, o il più tranquillo gioco r li buttun, e canti e filastrocche d’altri tempi. In quella stessa via si esibiva pure l’improvvisata banda musicale messa su da bambini e bambine, dotata di strumenti altrettanto improvvisati, come coperchi, mazze, lattine, scodelle, mestoli, tric trac e zirri zirri. Con la sfilata di quell’insolita banda, che voleva imitare la banda ufficiale nel giorno della festa di San Rocco, l’autrice dà vita a una scena degna di Tom Sawyer, in cui sembra di sentire l’ammuina quotidiana prodotta nelle prime ore del pomeriggio, tra il disappunto e gli improperi dei poveri abitanti stanchi per il lavoro nei campi (– Santo Rooocco! Jateviiinne!Jàtl a piglià ‘ngulo!Ca puzzìt schiattà!Finìtela r strumpittià avite capìto?La Marònna, Gesù Cristo! Jàteve a scapezzà a lu Sàmmaro!) e l’innocente incomprensione di quegli scombinati suonatori convinti della serietà del loro impegno. L’elenco dei loro nomi, quasi ostentato, è di per sé uno spettacolo: Gerardino r Pinocchio, Nicolino r zì Pietro, Pinuccia r Burraciòn, Livira la Sardagnola, ‘Ndonio r lu Scurzese, Maria r Letta, Giannina e Pinuccia r Mario lu Sciulè, Maddalena e Michele r Facciruss, Pinuccia e ‘Ndino r zì Narduccio. Lo spettacolo sta nel soprannome di cui tutti sono dotati, in genere un patronimico che ne esprime l’appartenenza e li rende riconoscibili nella comunità paesana. Si tratta di una sorta di anagrafe popolare che genera per ciascuno un piccolo compendio genealogico, così importante da accompagnarlo per tutta la vita. È la stessa autrice a sottolinearlo, quando firma il suo volume con due nomi, quello ufficiale e quello dell’anagrafe popolare, l’antico e mai dimenticato nome “roscignolo” Marianna r Burracciòn, quasi che il primo non bastasse ad esprimere l’identità popolare, il legame con la terra d’origine, il senso di appartenenza evocato dal secondo.

A un certo punto pare di sentire l’odore del sapone fatto in casa, con i residui di grasso e di ossi di maiale mescolati a soda e cenere, e quello del pane preparato col lievito madre (lu luvàto); i suoni della vendemmia, vero evento collettivo quando “l’odore dolce del mosto ubriacava l’aria di settembre”, e l’animazione concitata creata dall’uccisione del maiale, altro evento cruciale in cui le singole famiglie, aiutandosi a vicenda e scambiandosi lu ‘mmito r puorc (l’invito al pranzo del maiale), esprimevano il senso profondo della comunità che le legava. Era, quella, l’occasione per una prelibatezza d’altri tempi: il sanguinaccio, del quale si forniscono ricetta e modalità di preparazione davvero interessanti.

Foto da Conosci la tua provincia? Ecologia, Jannone, Salerno 1990

E poi, i tanti personaggi anch’essi portati dalle “voci dell’anima” che aleggiano intorno alla sensibilità della scrittrice: da “zio Nanni”, col suo affetto e la sua dolcezza quasi paterne, a “zio Emilio” (che in paese era Emilio r Giovanni r Michelearcangelo), figura severa e silenziosa di educatore al quale l’autrice dedica una commossa e commovente lettera postuma di ringraziamento che le consente di trasformare l’odio innocente della bambina che era nella riconoscenza e nell’amore della donna (e della scrittrice) che è diventata anche grazie al suo rigore da prete; dall’omonima “nonna Marianna”, con i suoi insegnamenti sulla durezza della vita (“la vita è chièna r sarcinièdd!”) e con i suoi “cunti” di “munaciedd e brianti” – questi ultimi immancabilmente provenienti da Sacco oltre il fiume Sammaro – narrati attorno al fuoco nelle lunghe sere invernali, e capace di celebrare l’antico rito del malocchio (“– Ceca luocchio…! Ceca luocchio!”) tra superstizione e religione, sacro e profano, a “mamma Nina”, con i suoi metodi educativi duri e spicci – che oggi indurrebbero a chiamare Telefono azzurro – perché ispirati al motto condiviso un po’ da tutti: “mazze e panelle fanno i figli belli, pane senza mazze fa i figli pazzi”. Anche qui però c’è un senso di riconoscenza postuma, perché se è vero “che i nostri genitori menavano mazzate”, non è meno vero che “non trascuravano mai di prepararci alla vita: trovando sempre il tempo giusto per ogni cosa importante”. E perché, all’epoca, “tutti gli adulti erano avari di tenerezze, per prepararci alla durezza della vita”.

Forse uno dei personaggi che più rimane impresso è ronna Ina, la maestra del paese, severa, spigolosa, poco comprensiva, rigida, avara di sorrisi non perché cattiva ma perché tutta compresa nei suoi compiti educativi anch’essi ispirati all’adagio poco rassicurante delle mazzate. Questo il suo ritratto al primo giorno di scuola: “Mi sembrò triste con le sue labbra sottili e serrate … con i suoi occhi chiari, gelidi e privi di luce. … Non brutta, lo sembrava: la tristezza, lenta come una campana lenta, le impediva di aprire le sue labbra ai sorrisi, anche forzati”.

L’ammonizione con cui si presentava, e che amava ripetere, era la sintesi del personaggio e costituiva un po’ il suo programma: “Quànn virìt a mme v’avìt piscià sotto ra la paùra”. Ne conseguiva un ampio ricorso all’intero armamentario punitivo allora in voga, con ceffoni, l’utilizzo delle bacchette, l’obbligo di restare in ginocchio sul granturco, di tenere le mani alzate, di rimanere dietro la lavagna o faccia al muro. Tutte punizioni corporali un po’ sadiche un po’ volutamente umilianti, ma generalmente ritenute normale strumento didattico. Di certo, nessun genitore si sarebbe neppure sognato di lamentarsi con la maestra.

Alcune scene della classe della “maestra Ina” sembrano felliniane, ricordando momenti di Amarcord, dalle punizioni alla generale difficoltà di esprimersi in italiano, ma soprattutto alcune figure come l’alunno ripetente Seppe, “irriverente e poco amante della disciplina … disordinato e fuori dagli schemi”, che incuriosiva perché “per merenda mangiava un’intera soppressata, senza pane”, o come Franchino, il nipote del sindaco, ribelle e insofferente, fiero oppositore delle lezioni di catechismo impartite all’ultima ora da “Giusina e za monaca”, o, ancora, come Nicoremo, ostinato nella sua piccola ribellione di sbagliare apposta l’accento di Taranto, pronunciando, con calma e ostinazione, “Golfo di Tarànto” (“La tarantèlla r vàvta!”, rispondeva irritata ronna Ina, incapace di capire che si trattava di una piccola protesta al suo ordine: “Grande Nicoremo!”, esclama l’autrice plaudendo al coraggio d’allora del compagno di classe).

Foto da Conosci la tua provincia? Ecologia, Jannone, Salerno 1990

Alla fine, la comprensione portata dal tempo induce non solo al perdono ma alla riconoscenza verso la maestra che agiva “in buona fede e per il nostro bene”, convinta come tutti che “mazze e panelle…”; sicché anche lei, “donna del suo tempo e severa anche con se stessa, seguiva il suo dovere per farci belli!”. E anche il debito con questa radice è così saldato.

Che dire poi di un personaggio come lu fotografo, più bello e affascinante di Hemingway, detto “zì maestro” perché artista nel mettere in posa i suoi soggetti e fotografare “quello che sentiva, non quello che vedeva”. Con lui, il memoir diventa quasi un romanzo di formazione, perché “zì Rocco Zaccaria” – questo il suo nome – è una sorta di maestro di vita per la piccola Marianna che instaura con lui un rapporto di curiosità e confidenza. Egli porta in paese non solo la magia delle sue foto, ma anche la novità della cinepresa, con cui realizza il primo straordinario filmino, quello delle nozze di Ninuccia e Nicola r Sciusciuliedd.

Anche il cinema è tra le magie portate da “zì Rocco”, che organizza le prime serate di cinema all’aperta prima a Roscigno Vecchia e poi alla sua frazione, Roscigno Nuova, che stava diventando via via più grande e importante (e che è il luogo dove vive la piccola protagonista ed è ambientato il memoir). Qui l’autrice non rinuncia a costruire con abilità una scena che rimanda alla magia della “settima arte” mostrata in Nuovo cinema Paradiso e richiama uno dei primi filmati pubblici proiettati al tempo dei fratelli Lumière con la celebre locomotiva che, muovendosi verso gli spettatori, sembrava volerli travolgere uscendo dallo schermo:

È la sera di ferragosto, tutti sono in piazza per capire cos’è “lu fiiirmo” annunciato da “lu bannista” all’intero paese, qualcuno sospetta che “so’ fotografie ca s’ mòvene” ma molti non ne sanno nulla e attendono con curiosità, quasi con agitazione. Si proietta Il padrone delle ferriere, “zì maestro” spiega, agli intimoriti spettatori, trattarsi del titolo del film, di cui pochi comprendono il senso. Quando compare un treno che sembra precipitare con grande velocità verso il pubblico, la scena si anima e le paure diventano reali: – Pe’ la Marònna, ne stìa venènn ‘nguòdd!E sì, ne stìa accirènn!N’àma salvati pe’ miràculo!E chisto era lu fiirm, la cicoria e lu trèpt! ma va’ lu pìglia ‘ngùlo, uè Ro’! m’ ‘a fatto scandà! Queste le colorite esclamazioni dei presenti che finalmente pensano di aver scoperto sulla loro pelle cos’è il cinema. Il fotografo li rassicura dicendo che si tratta davvero di “una fotografia che si muove, ma r mosse sono nel film, non fuori… come spiegarvi…? …è ‘na finta”. Ma alcuni non sono convinti: – E sì, cu li cazzi ch’è ‘na finta, uè maè! io m’aggia visto muòrt!Nui ancora tremmolèiamo.

La forza del cinema in breve convinse tutti dell’assenza di pericoli e del fascino delle sue storie e dei suoi divi, facendolo entrare nelle esperienze formative anche della nostra protagonista.

Senso della scena, gusto per l’ironia, abilità nell’uso della frase dialettale, a volte scurrile perché verace e funzionale al contesto popolare, le riscontriamo spesso nel testo, come nel caso dell’arrivo di un’altra novità in paese: la televisione. Lasciamo a voi la lettura della scena, non meno esilarante di tante altre cui si è accennato sopra; qui ricordiamo solo come la calca dei paesani in casa di “zì Vituccio r Sciusciuliedd”, uno dei pochi possessori in paese del nuovo elettrodomestico, riproduca una situazione ricorrente negli anni ’50 un po’ dappertutto nelle nostre comunità, e anche altrove, quando cominciava a diffondersi lentamente il nuovo “focolare domestico”. L’ingenuità degli inesperti telespettatori, convinti di essere visti da chi compariva in video e quindi pronti a rispondere con un educato “Buonaseeera!” al saluto dell’annunciatrice e addirittura a indossare il “vestito buono” per non fare brutta figura, forse fa sorridere ma è assai realistica. Anch’io ricordo mia nonna e le sue amiche rispondere a quel saluto davanti al vecchio televisore a valvole e, naturalmente, in bianco e nero, accompagnandolo a volte addirittura con un movimento della mano. Non so se fosse convinzione o desiderio di essere viste per partecipare allo spettacolo, che poi era essenzialmente la Messa trasmessa con regolarità dal Primo Canale. L’ingenuità di allora, oggi appare quasi profetica, dal momento che le attuali smart tv ci guardano davvero, anzi ci spiano per carpirci dati da utilizzare, per ora, a scopo commerciale.

Vabbè, l’avrete capito, il romanzo della Lorenzo, pardon! il memoir, che offre anche numerosi altri sprazzi di vita locale, si legge con piacere e, ai più sensibili, non manca di suscitare qualche momento di commozione. Saldando il debito con le sue radici, l’autrice – come una sorta di “signora della nostalgia” – richiama in vita persone, luoghi, atmosfere del passato e dona loro quel tocco di eterno di cui solo l’arte è capace, “perché il mio passato è il mio presente e il mio avvenire”, e, ancor più, “perché la terra è fatta di cielo e la scrittura ne è la scala”.

Insomma, scriverlo è stato una scalata verso il cielo, leggerlo può essere la conquista di preziosi attimi di “tempo ritrovato”.

Author: manlio morra

1 thought on “Attimi di “tempo ritrovato” sulle sponde del Sammaro

  1. Gentile Manlio,
    ho letto la tua generosa e raffinata recensione con commozione, perché solo uno scrittore sensibile e colto come te poteva offrirmi – come strenna natalizia – un sorprendente, inatteso e dolce Perimetro di cielo! Nel quale, aprendo la Porta socchiusa, sono entrata frastornata e intimidita; ritrovando, con pudore e con gli occhi umidi, l’aria di casa mia, dopo un lungo girovagare per il mondo.
    Così, grazie al tuo dono, ho ripreso a camminare sulle pagine del mio libro con uno sguardo trasognato, salendo nuovi e preziosi scalini sulla scala verso il cielo; rivisitando piano piano la realtà, i ricordi e la fantasia; ripescando il mio “altrove” in voci dimenticate e in tanti piccoli pezzi usurati: anelli, braccialetti, fiori rinsecchiti, collane di pasta, tazze sbeccate.
    Così, grazie alla tua narrazione – calda come il pane sfornato da poco – ho potuto ri-vivere la mia storia “per la prima volta”, sublimando il tempo, la memoria e la nostalgia delle cose, dei luoghi e delle persone.
    Solo che, gentile Manlio, ritornata dal Perimetro di cielo nella mia casa reale, sono rimasta imbambolata e con le mani ferme, per ore, sulla tastiera – incapace di trovare le parole giuste per ringraziarti del fantastico viaggio; sicura, però, che uno scrittore di vaglia come te saprà respirare, tra gli spazi di quelle che sono riuscita a scrivere, il silenzio intenerito della mia gratitudine.
    Nell’augurarti un felice nuovo anno, t’invio affettuosi saluti.

    Maria Pia Lorenzo.

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