San Filadelfo e il suo cenobio: testimoni esemplari del monachesimo bizantino cilentano e meridionale

La cerimonia svoltasi lo scorso 19 gennaio nella cattedrale di Vallo aveva un che di suggestivo, probabilmente non sfuggito alla gran parte dei presenti. Il vescovo diocesano, in quell’occasione, ha benedetto l’ottocentesca statua di san Filadelfo Abate appartenente alla famiglia Giuliani, tornata come nuova dopo il restauro. La suggestione non era tanto nel rito, che pur restituiva al culto l’effigie poi ricollocata nella chiesa di famiglia in via De Masellis (cappella di Sant’Agostino), quanto nei rimandi storico-culturali rappresentati da quel nome e da quel culto nel nostro territorio.

Statua di S.Filadelfo prima del restauro (Proprietà Giuliani)
Statua di S.Filadelfo prima del restauro (Proprietà Giuliani)
Statua di S.Filadelfo prima del restauro (Proprietà Giuliani)
Statua di S.Filadelfo prima del restauro (Proprietà Giuliani)

Filadelfo è, infatti, un santo locale, uno di quei monaci italo-greci che per secoli, soprattutto nell’Alto Medioevo, hanno operato nel Cilento, portandovi i riti, la spiritualità, la cultura religiosa e artistica, le tecniche agricole, le capacità terapeutiche, i culti del mondo bizantino. In particolare, egli è legato al Monastero di Santa Maria di Pattano (più comunemente chiamato “badia di Pattano”), di cui fu il fondatore o uno dei primi egumeni (termine più o meno corrispondente a quello di “abate”).

Statua di S.Filadelfo dopo il restauro (Proprietà Giuliani)
Statua di S.Filadelfo dopo il restauro (Proprietà Giuliani)
Statua di S.Filadelfo dopo il restauro (Proprietà giuliani)
Statua di S.Filadelfo dopo il restauro (Proprietà giuliani)

Proprio da quel monastero proviene la statua lignea, oggi custodita nel Museo diocesano di Vallo, a lui dedicata, che costituisce uno dei manufatti artistici di maggiore interesse e valore storico del Cilento. Essa è stata datata circa vent’anni fa, dalla studiosa Marina Falla Castelfranchi, a un periodo che va dalla fine del X all’inizio dell’XI secolo e attribuita a un maestro espressione della produzione artistica ottoniana. In passato la si riteneva risalente al XIV secolo (Maiese), o al massimo al XII-XIII secolo (d’Aniello). Ma per le sue caratteristiche iconografiche – occhi grandi e severi, zigomi marcati, labbra dal contorno abbassato, barba a punta -, tipiche del periodo degli Ottoni (dinastia di imperatori del Sacro Romano Impero regnanti tra il 962 e il 1024), la Castelfranchi ha ritenuto di poterla retrodatare a circa mille anni fa.

Maria Rosaria Marchionibus, sulla scia di quest’ultima, nel suo Il Cilento bizantino. Monastero di Santa Maria de Pactano, scrive che la statua è policroma e mutila, “mancano le gambe, al di sotto delle ginocchia, e parte delle braccia. Sono rimasti gli incavi per l’incastro degli arti inferiori e superiori, che erano stati lavorati a parte, come la testa, e quindi mobili. […] Il santo è raffigurato in una posizione frontale, rigida, accentuata dalla fissità idolica dello sguardo: indossa una corta mantellina scura peculiare dell’abito monastico […] su una sorta di tunica. […] La testa […] è connotata da una serie di elementi che ne accentuano l’espressione severamente ascetica ed impenetrabile, come gli occhi fissi dalla forma allungata, il naso prominente a cannula, la barba scura e appuntita e la bocca dalle caratteristiche commessure labiali all’ingiù”. E ancora: “La statua sembra avvolta da un’aura di ‘terribilità’ che la proietta in una dimensione ultraterrena. Gli occhi sono rivolti verso il basso come se guardassero attenti, confermando che la scultura fu realizzata per essere ubicata in una posizione più elevata rispetto all’osservatore, che in tal modo, probabilmente, si sentiva totalmente ‘dominato’ dalla presenza del santo”.

Statua S.Filadelfo (X-XI sec.). (Foto da Guida al museo diocesano di Vallo della Lucania, CEI, 2002)..
Statua S.Filadelfo (X-XI sec.). (Foto da Guida al museo diocesano di Vallo della Lucania, CEI, 2002).

È a questo punto che la suggestione di cui dicevamo all’inizio si spiega pienamente, svelando un culto millenario dalle radici lontane e profonde, una storia ricca e affascinante, una presenza artistica nel nostro territorio poco conosciuta e valorizzata. Certo, se date uno sguardo alle due statue, vi accorgerete che poco le unisce, per stili e riferimenti iconografici sono agli antipodi, d’altronde a separarle vi sono molti secoli e qualche equivoco. Quella più recente raffigura il Santo come un monaco occidentale dal volto e dall’atteggiamento estatici, forse anche sofferenti, ma di sicuro non con quella “terribilità” caratteristica della più antica, che invece intende rappresentare il Taumaturgo con tutta la forza ieratica e soprannaturale di un’icona. Ma ciò che per noi è interessante non è la somiglianza, quanto la continuità della presenza di quel santo monaco nella memoria locale, anche se il suo culto ormai è scomparso, mentre si è rarefatto anche l’uso del suo nome.

L’antichissimo manufatto di san Filadelfo è un pezzo unico perché è tra le più antiche statue lignee bizantine ritrovate finora. Altre immagini dello stesso genere risalgono a non oltre il XIII secolo. Un’antichità che è una delle tracce più evidenti di quel lungo periodo storico in cui il nostro territorio fu fortemente interessato dal fenomeno del monachesimo italo-greco (comunemente detto “basiliano”).

(foto da M.R. Marchionibus, Il Cilento Bizantino. Monastero di Santa Maria de Pactano, Ed. Palazzo Vargas, Vatolla Salerno, 2004).
(foto da M.R. Marchionibus, Il Cilento Bizantino. Monastero di Santa Maria de Pactano, Ed. Palazzo Vargas, Vatolla Salerno, 2004).

Tornando a Pattano e alla sua “badia”, c’è da dire che essa fu una delle più antiche e prestigiose dell’area cilentana. Documentata solo dalla fine del X secolo, essa doveva essere però molto più antica, in quanto, all’epoca della sua prima attestazione, risultava già dotata di un cospicuo patrimonio fondiario e il suo egumeno godere di grande autorevolezza tra i monaci orientali della zona. Ma la data precisa non la conosciamo ed è possibile solo ipotizzarla; infatti, studiosi e cultori la collocano nell’ampio arco temporale che va dal VII agli inizi del X secolo. La Marchionibus propone quest’ultima datazione, che è la più probabile dato il livello scientifico del suo lavoro, coincidente con l’epoca in cui sarebbe vissuto il fondatore Filadelfo. Lo attesterebbero la cappella a lui dedicata nel complesso del Monastero, gli affreschi che ne decorano gli interni e la statua lignea di cui si è detto, tutti risalenti alla fine del X inizio dell’XI secolo.

Complesso monastico di S.Maria di Pattano. Cappella di S.Filadelfo (Foto da M.R.Marchionibus, Il Cilento bizantino....)
Complesso monastico di S.Maria di Pattano. Cappella di S.Filadelfo (Foto da M.R.Marchionibus, Il Cilento bizantino….)

In pratica, alla sua morte o poco dopo, il fondatore, per la sua vita virtuosa e le sue capacità taumaturgiche, venne considerato santo dai monaci e dalla popolazione locale, come non di rado avveniva nei monasteri bizantini; per consentirne il culto e conservarne la memoria, si ritenne opportuno dedicargli una cappella che ne ospitasse il corpo, affrescarla e far realizzare un’immagine lignea da collocare nello stesso ambiente sacro. Per secoli, quella cappella fu luogo di pellegrinaggio per i locali provenienti dai casali vicini, nati attorno al monastero o sulle sue terre, legati alle sue attività economiche e alla guida spirituale svolta dai suoi religiosi (Pattano Sottano, Pattaniello, Spio, Cornuti ed altri), e il culto si mantenne vivo anche quando, nella seconda metà del XV secolo, i monaci orientali furono cacciati e la “badia” passò in commenda e vi si stabilì il rito latino. Il 28 gennaio si celebrava la festa del Santo (per alcuni, il 19), con una fiera divenuta anch’essa rinomata per l’afflusso di gente e di mercanti. Solo a partire dal Settecento quel culto dovette affievolirsi, pur rimanendone tracce nell’onomastica locale. Oggi, la statua del Santo si trova a Vallo, e costituisce uno dei pezzi forti del locale Museo diocesano; le sue ossa si trovano nella chiesa parrocchiale di Pattano; il complesso monumentale dell’antico monastero – formato anche dalla chiesa principale (il katholikon), dagli ambienti monastici e dalla torre (usata per battere il semantron e, solo dal XII secolo, forse per suonare le campane) – ampiamente restaurato e recuperato a una prima fruizione pubblica, aspetta ancora una definitiva sistemazione nel non molto vivace panorama culturale e turistico locale.

Complesso monastico di S.Maria di Pattano (Foto da M.R.Marchionibus, Il Cilento bizantino...)
Complesso monastico di S.Maria di Pattano (Foto da M.R.Marchionibus, Il Cilento bizantino…)

Come si è accennato, il monastero di S. Maria di Pattano esemplifica una storia più ampia, quella della forte presenza del monachesimo orientale nel territorio cilentano. Conquistato dai Longobardi ma posto ai confini di quelle terre calabro-lucane appartenenti all’impero di Bisanzio, il Cilento altomedievale è interessato dalla continua migrazione di monaci bizantini che lo attraversano per predicarvi, per sostare, spesso per impiantarvi il proprio modello di vita monastica. Questi monaci, non di rado accompagnati dalle famiglie, si spostavano nell’impervio e all’epoca quasi disabitato Cilento longobardo (ma il fenomeno riguarda tutto il Salernitano e l’intera Campania) per sfuggire alle lotte iconoclaste che imperversavano nell’impero, per sottrarsi agli arabi conquistatori della Sicilia nel IX secolo e alle loro incursioni che rendevano insicure le coste calabresi, ma anche per trovare quella tranquillità e quel silenzio ideali per condurre la loro vita ascetica.

(Foto da M.R.Marchionibus, Il Cilento bizantino....)
(Foto da M.R.Marchionibus, Il Cilento bizantino….)

Il monaco bizantino, soprattutto nei primi secoli, è essenzialmente un anacoreta, conduce vita solitaria, per questo cerca grotte e anfratti rocciosi in cui rifugiarsi, zone boscose e poco antropizzate per pregare e lavorare la terra. Condizioni che trova in abbondanza proprio nell’area cilentana. Col tempo, questo monachesimo si evolve verso forme organizzative meno eremitiche: nascono le laure, in cui i monaci continuano a condurre vita solitaria in grotte o capanne poco distanti ma si riuniscono in preghiera in una chiesa comune, e i cenobi, in cui si fa vita comunitaria in ambienti molto semplici ma via via più strutturati.

Cosa fanno questi monaci? Pregano, rivolgono orazioni e pratiche liturgiche alle icone dei loro santi e soprattutto della Vergine hodigitria, la “Madre di Dio” che guida il cammino spirituale, illumina la strada del fedele; ma, pur considerandosi cittadini del cielo, hanno i piedi saldamente sulla terra e, infatti, lavorano, disboscano la selva, dissodano i terreni, terrazzano i versanti collinari, incanalano le acque, utilizzano tecniche agricole importate dall’impero, introducono nuove colture, realizzano manufatti artigianali. In pratica, il loro modus operandi non è molto lontano dall’ora et labora su cui si fonda il monachesimo benedettino.

Date queste caratteristiche materiali e spirituali, la loro presenza attrae popolazione, costituisce un incentivo alla formazione di nuclei abitati e allo sviluppo agricolo. Le laure e i cenobi diventano punti di approdo e di irradiazione di piccole comunità da cui nascono spesso casali via via più grandi. Toponimi come Laurino, Laurito, Laureana, Celle di Bulgheria, stanno a lì a dimostrarlo, oltre ai tanti paesi che portano il nome di santi orientali. In altri termini, la secolare attività degli italo-greci non ha solo un significato religioso e spirituale (e, più in generale, culturale), ma anche economico e sociale, favorendo lo sviluppo del territorio e contribuendo alla ridefinizione dell’assetto demografico. Per questo, il monachesimo bizantino nel Cilento, attraverso le sue molteplici interazioni con l’ambiente, realizza una vera esperienza di civiltà e costituisce un fatto storico di notevole rilievo.

Se torniamo sul territorio, vi troviamo una tale densità di nuclei monastici da poter condividere quanto scrisse Pietro Ebner, che, riferendosi all’area cilentana, riteneva fosse diventata “una tebaide del monachesimo italogreco”. I nostri monaci, infatti, risalirono l’Alento, costituendovi i cenobi di San Giorgio a Duoflumina e di Santa Maria di Terricello, presso Acquavella; risalirono il Badolato, impiantandovi i cenobi di Santa Marina di Grasso, presso Vallo, e di Santa Maria di Pattano (probabilmente, prima della costruzione del cenobio, i monaci o qualche asceta solitario si erano fermati in anfratti e grotte poco distanti, quali la zona oggi nota come Chiusa delle Grotte, un tempo Chiusa dei monaci; forse, lo stesso Filadelfo fu inizialmente uno di questi eremiti); percorsero la Valle del Bruca, dove troviamo i cenobi di Santa Barbara e, più a sud, sulle balze di Cuccaro, quello di San Nicola. Non molto distante, l’odierna Eremiti richiama la presenza di asceti che formavano una laura e, in seguito, il cenobio di S. Cecilia; il paese di San Mauro la Bruca nasce attorno a una chiesa e all’attiguo omonimo monastero; quello di San Nazario ha le stesse origini, sviluppandosi dall’omonimo monastero dove nel 940 Nicola da Rossano, il futuro San Nilo, vestì l’abito monastico (e per questo detto da Pietro Ebner “culla della Congregazione nilana”).

Nell’area del cosiddetto “Cilento antico” (grosso modo, attorno all’attuale Monte Stella), troviamo il piccolo cenobio di San Nicola, in località Capograssi presso l’odierna Serramezzana; quello di San Fabiano, nei pressi di Casigliano; quello di Santa Maria di Gulia, nel sito oggi interessato dall’insediamento di San Marco di Castellabate, risalente all’incirca al X secolo, cioè prima che sulla collina sovrastante i benedettini della Badia di Cava edificassero il Castrum Abbatis (XII secolo), da cui l’odierna Castellabate. I più importanti di quest’area erano il monastero di San Magno, presso l’attuale San Mango, e quello di Sant’Arcangelo nei pressi di Perdifumo; entrambi controllavano molte terre, chiese e casali, donate loro o acquisite nel corso del tempo.

Anche l’area che si affaccia sul Golfo di Policastro fu interessata dal fenomeno. Anzi, qui, data la vicinanza ai confini dell’impero bizantino, gli orientali e le loro fondazioni furono più numerose. I monaci si fermarono a Bosco, fondandovi il cenobio di San Nicola, li troviamo a Licusati, dove il monastero di San Pietro fu all’origine della formazione del villaggio, diedero vita nei pressi di Centola alla nota abbazia di Santa Maria e a Camerota a quella di San Cono, dove dovettero utilizzare in una prima fase ascetica le numerose grotte del luogo (come ci racconta Pietro Ebner). A Caselle in Pittari era il noto monastero rupestre di San Michele Arcangelo, dove anche San Nilo, in fuga da Rossano, avrebbe trovato sicuro rifugio per sfuggire ai suoi persecutori.

Chiesa abbaziale e torre di difesa del cenobio di S.G.Battista. San Giovanni a Piro (foto da A. La Greca, Appunti di Storia del Cilento, CPCC, Acciaroli, 2017 - terza ed.)
Chiesa abbaziale e torre di difesa del cenobio di S.G.Battista. San Giovanni a Piro (foto da A. La Greca, Appunti di Storia del Cilento, CPCC, Acciaroli, 2017 – terza ed.)
Ruderi del cenobio di Sant'Arcangelo di Perdifumo  (foto da A. La Greca, Appunti di Storia del Cilento...))
Ruderi del cenobio di Sant’Arcangelo di Perdifumo (foto da A. La Greca, Appunti di Storia del Cilento…))

Ma il più importante degli insediamenti religiosi di quest’area era il monastero di San Giovanni Battista, in località Ceraseto, presso San Giovanni a Piro. Anche in questo caso, come in gran parte dei precedenti, il paese nacque attorno al cenobio, sviluppandosi grazie ad esso al punto da assumerne il nome, come spesso accadeva. Ricco di terre, chiese e dipendenze di vario tipo, il suo abate col tempo divenne barone di San Giovanni a Piro e archimandrita per le varie grange ad esso collegate. Il suo territorio fu sottratto a lungo alla giurisdizione del vescovo diocesano. Rimase per secoli di rito bizantino, anche quando gli altri monasteri del territorio erano ormai stati latinizzati. Nel Quattrocento due suoi egumeni divennero vescovi di Policastro (Nicola, nel 1417) e di Capaccio (Masello Mirto, nel 1441). Le attività cui il monastero presiedeva ne fecero un cenacolo di arte e di vita intellettuale. Doveva possedere uno straordinario patrimonio di manoscritti, documenti e codici alla cui trascrizione e al cui studio ci si dedicava nello stesso cenobio, come attesta Biagio Cappelli.

Molti altri furono i cenobi costituitisi lungo i secoli soprattutto altomedievali (potete farvene un’idea nelle foto in cui presentiamo la cartina della loro distribuzione e l’elenco), tutti scomparsi o passati ai latini dopo la conquista dei Normanni (salvo poche eccezioni, tra cui quello di S. Maria di Pattano). Abbiamo tralasciato l’area del Vallo di Diano, anch’essa fortemente bizantinizzata per la sua vicinanza alle terre imperiali, e per la quale basti citare quanto scrisse Vittorio Bracco nel suo saggio su Polla, sostenendo che “tutto il territorio per un raggio assai vasto appare dominato prima e dopo il Mille dall’azione capillare condotta dagli industri monaci che risalivano dalle Calabrie e portavano riti, usanze e voci orientali fra questi paesi del Principato di Salerno al di qua del Sele”.

Cartina distribuzione monasteri (foto da A. La Greca, Appunti di Storia del Cilento...)
Cartina distribuzione monasteri (foto da A. La Greca, Appunti di Storia del Cilento…)

Oggi di tutti questi monasteri, poco rimane in piedi. Molto è andato distrutto per l’incuria e il tempo, molto altro è ridotto allo stato di rudere, alcune strutture sono state inglobate in edifici successivi. Le tracce più cospicue sono quelle della “badia di Pattano”, i cui resti architettonici permettono di ricostruirne l’originaria struttura, al di là di aggiunte e rifacimenti che nel corso del tempo ne hanno alterato il volto.

Da qui la sua importanza odierna, come complesso monumentale emblematico di un’epoca e di un territorio, della sua storia e delle sue tradizioni. Basti solo pensare che esso fu tra i più ricchi e potenti monasteri italo-greci, ricevette moltissime donazioni e acquistò numerose terre e diritti, divenne il centro propulsore di molte dinamiche socio-economiche e religioso-culturali che investirono quella che era stata la chora eleate e sarebbe divenuta la Valle di Novi. Furono i suoi monaci, ad esempio, a portare culti quali quello di San Nicola e di San Pantaleone (quest’ultimo, peraltro, rappresentato in un affresco della cappella di San Filadelfo).

Noi, che siamo i loro lontani eredi, abbiamo dunque il dovere di conservarne la memoria, di non far cadere nell’oblio quel grosso pezzo di storia che il complesso di Pattano, muto, rappresenta da secoli.

Il monaco taumaturgo Filadelfo, sulla scia dei suoi confratelli San Nilo, San Fantino, San Cristoforo, che operarono nel territorio cilentano, ci ricorda la ricchezza del monachesimo orientale nelle terre del Principato e del Meridione tutto. Monachesimo di cui il suo cenobio fu, nel passato, uno dei centri più floridi e può essere, oggi, il centro della sua riscoperta storica e valorizzazione turistico-culturale.

Author: manlio morra

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