Per uno strano disegno del destino o, se volete, della Provvidenza, don Petraglia portava il nome di quel Luca, santo autore del terzo Vangelo e degli Atti, che per tutta la tradizione cristiana è stato un medico e che, ancora oggi, è il patrono della categoria (medici e chirurghi). Considerazione cui se ne aggiunge un’altra: anche il patrono della diocesi e del suo centro è un medico. Infatti, San Luca e San Pantaleone sono tra i Santi medici più invocati (insieme alla coppia Cosma e Damiano) contro malattie e malanni vari.
Sembrava, dunque, scritto in quel nome che il nostro sacerdote dovesse coltivare il sogno di costruire un ospedale e di farlo in quella Vallo che si vantava di avere come protettore il Santo di Nicomedia. E, per giunta, un ospedale per i poveri, cioè gratuito e volto unicamente al sollievo di quel vero povero che è ogni malato. La medesima gratuità praticata da Pantaleone nell’esercizio della sua arte medica, per la quale è definito anàrgiro, appellativo che ne qualifica ulteriormente le sue capacità taumaturgiche.
La vicenda personale e sociale di don Luca Petraglia, il suo sogno e la sua lenta realizzazione, il percorso di sviluppo della struttura sanitaria vallese con i suoi tanti protagonisti, sono stati al centro dell’attenzione di un recente incontro svoltosi nell’aula magna dell’Ospedale “San Luca” di Vallo e che è stato anche l’occasione per fare il punto circa la situazione attuale di tale struttura e il suo futuro, ancora non scritto ma avvertito da molti come problematico se non incerto.
L’idea meritoria del Rotary Club vallese nasceva – credo – dall’intenzione di riflettere su un passato lungo e assai accidentato, quale quello che ha condotto all’istituzione e alla crescita del “nostro” ospedale, per poter avere una visione più profonda e consapevole, meno improvvisata e frammentaria, del ruolo che ha ancora da svolgere la struttura ospedaliera, della sua natura di perno della centralità funzionale ancora svolta da Vallo nel suo ampio territorio e – come ho scritto altrove – del suo essere un vero presidio di civiltà, un hub di servizi alla comunità, alla persona, alla dignità umana.
A illustrare tali tematiche sono stati chiamati alcuni studiosi del territorio (tra cui chi scrive) e, soprattutto, dei dirigenti – ora in pensione – dello stesso “San Luca”. Scelta oculata, in particolare quest’ultima, perché nessuno può parlare con maggiore cognizione di causa di chi ha amministrato la struttura, vivendoci spesso in simbiosi. E infatti, costoro hanno offerto il loro prezioso sguardo interno, mostrando non di rado una partecipazione personale alle vicende attraversate dall’ospedale.
Con la passione che lo caratterizza, il direttore sanitario in carica, dott. De Vita, ha introdotto i lavori mostrando le criticità che lo impegnano quotidianamente ma anche gli sforzi in atto per mantenere, e incrementare, sia in termini quantitativi che qualitativi, le capacità professionali e di accoglienza dell’intera unità ospedaliera, dei singoli reparti e delle unità specialistiche. Se a qualcuno è sembrato di poter cogliere nelle sue parole un rapporto alquanto dialettico con Salerno, ad altri è parso non nascondere difficoltà e incomprensioni che animano la gestione dell’intera ASL, pur in un quadro non pessimistico e abbastanza rassicurante circa le prospettive e gli assetti futuri.
Lontano dalle turbolenze della quotidianità e dai fastidi di cui è costretto a caricarsi l’amministratore, il prof. Pepe, con la sapienza di chi si occupa di ambiente nell’accezione più ampia del termine, ha potuto volare alto, parlando dell’antichità e del valore della medicina come arte del viver bene, accennando alla Scuola eleatica di Parmenide e Zenone, poi trasfusasi nella Scuola medica salernitana, entrambe esperienze di civiltà che hanno animato per secoli il territorio su cui insiste la nobile attività del “San Luca”. Quale migliore auspicio di questa visione olistica dell’uomo nata da una cultura antica che possiamo, con orgoglio, rivendicare al nostro Cilento per fondare l’importanza presente e futura del nosocomio vallese?
Vincenzo Pepe non l’ha detto, ma nella sua sapiente e rapida relazione era implicito il pensiero che l’ospedale di Vallo non può considerarsi – come oggi forse appare agli occhi di certi amministratori – una lontana periferia di Salerno o, peggio, di Napoli, ma è, rimane e dovrà tornare a presentarsi come centrale per un territorio in cui, in sostanza, è nato il concetto stesso di star bene, di vivere in armonia con l’ambiente, della terapia come cura dell’uomo nella sua interezza.
È toccato a chi scrive aprire la parte più propriamente storica del convegno, mediante il tema – a dir la verità, un po’ a latere di quello principale – della sanità cilentana prima dell’impianto del “San Luca”. Ho cercato di restringere il campo diffondendomi essenzialmente sulle cliniche private che nascono a Vallo durante il cinquantennio di gestazione dello stesso “San Luca”.
Tre le date fondamentali: 1921, quando i fratelli Lettieri – Raffaele e Francesco – creano il loro “Policlinico Lucano” in una casa colonica allora poco fuori dal centro cittadino; 1929, quando il prof. Leopoldo Cobellis apre, insieme al figlio medico Eduardo, l’omonima Casa di cura, anch’essa nella campagna vallese; 1948, anno di apertura della “Clinica Cobellis” ad opera del dott. Luigi Cobellis (in seguito, professore), lungo la Statale 18, quasi nei pressi di Pattano.
Si tratta di tre Case importanti, con storie diverse eppure comuni nel costituire le prime vere strutture sanitarie funzionanti in un territorio dove operavano solo pochi e malpagati medici condotti. Con esse, soprattutto la prima, aperta poco dopo la fine del conflitto mondiale, cambia decisamente la qualità della sanità locale, affidata a medici spesso docenti universitari, a chirurghi in grado di fare interventi anche di una certa complessità, a personale infermieristico specializzato e quasi sempre fornito da congregazioni religiose (ad esempio, le “Suore d’Ivrea” nella Clinica dei Lettieri). Il vero limite di tali esperienze è che si tratta di privati, che curano dietro pagamento. Il ricovero del povero, al solito, è affidato al bilancio comunale, mai generoso perché sempre gravato da spese eccessive e di ogni tipo.
L’apertura del “San Luca”, nel 1956, costituisce quindi il vero cambio di paradigma nell’assistenza sanitaria locale. Apre allora, infatti, l’ospedale dei poveri, quello sognato a lungo da don Luca Petraglia, da lui quasi profetizzato agli inizi del Novecento; struttura con la quale inizia a realizzarsi quel concetto di sanità pubblica, di assistenza universale che già la Costituzione di qualche anno prima aveva sintetizzato nell’innovativo diritto alla salute.
Il giornalista Giuseppe D’Amico, che in passato era stato l’addetto stampa dell’ASL Sa/3, curando anche un bell’opuscolo sul fondatore ristampato per l’occasione, ha ripreso la sua ricerca di fine anni Novanta illustrando la benemerita figura di don Luca Petraglia attraverso le tappe di un’attività che lo aveva impegnato dall’inizio del secolo fino al ’47, anno della morte: 1911, inizio della pubblicazione della rivista Charitas, il cui scopo è di raccogliere i fondi per avviare la costruzione; 1913, acquisto del terreno grazie alle prime offerte giunte da più parti; 1915-18, l’iniziativa rallenta a causa della guerra; 1928-38, costruzione del primo edificio sul terreno acquistato nel ’13; 1939, pubblicazione di un’altra rivista – Il Samaritano – volta a riprendere la raccolta delle offerte, perché i fondi (circa 300.000 lire) sono finiti e all’ospedale mancano ancora pavimenti, infissi e arredamento. Ma di nuovo tutto, o quasi, si ferma per la guerra. Due anni dopo la sua conclusione, don Luca muore. Ancora una volta l’iniziativa si blocca e, stavolta, sembra definitivamente. Il suo sogno è interrotto, c’è bisogno di qualcun altro in grado di continuarlo. Il nuovo sognatore è don Alfredo Pinto che, nel ’50, fa erigere l’ospedale in Ente morale e, in qualità di presidente del suo CdA, riesce ad ottenere i fondi pubblici che completano l’opera. Anche lui però non la vede aperta, morendo a luglio del ’55. Sarà solo il terzo sacerdote coinvolto nell’impresa, don Pietro Guglielmotti, a realizzare il sogno dei primi due: il “San Luca” apre la sua attività il 20 dicembre del 1956.
D’Amico ha rapidamente richiamato anche le fasi successive, ricordando altre figure dirigenziali cui si deve l’ampliamento della struttura e lo sviluppo delle sue funzioni. Tra esse, particolare rilievo assume il dottor Pantaleo Aloia, direttore amministrativo dall’apertura fino all’87, anno della sua scomparsa. La sua relazione ha dato la giusta evidenza al fondatore, chiarendo come alle origini dell’ospedale vallese vi siano tre sacerdoti, capaci di sognare ma anche di essere dei realizzatori, confidando in quella Provvidenza che non esclude, ma anzi presuppone, l’impegno e la volontà personali. La loro azione si inscrive in quel cattolicesimo sociale che, dagli inizi del secolo scorso, non ha smesso di animare molti operatori pubblici e privati, laici e appartenenti al clero.
Due dei relatori sono stati negli ultimi decenni dirigenti del “San Luca”. Il primo, l’avv. Vincenzo Paesano, si è diffuso soprattutto sul periodo in cui ha ricoperto l’incarico di direttore amministrativo, quello in cui la struttura, diventata all’inizio degli anni Ottanta il centro dell’Unità Sanitaria Locale n. 59 e, a metà del decennio successivo, Azienda Sanitaria Locale, si ingrandisce notevolmente con nuovi reparti, unità e funzioni. Egli ricorda – con orgoglio, un pizzico di nostalgia e non poca emozione – che allora l’ospedale era arrivato ad avere circa 500 posti letti e che, in particolare negli anni Novanta, più volte la stampa locale e nazionale aveva evidenziato l’efficienza dell’ospedale vallese e il suo essere una struttura di eccellenza.
Il secondo, il dott. Pantaleo Palladino, pur ripercorrendo a grandi tappe alcune delle fasi salienti della storia dell’ospedale, ha portato il suo contributo in particolare sui primi anni Duemila, quelli in cui ha svolto il delicato compito di direttore sanitario.
Nella loro accurata, e accorata, ricostruzione entrambi hanno sottolineato l’impegno di tutto il personale, dirigente e non, nel garantire la funzionalità di ogni servizio non disgiunta dalla capacità di conservare quel volto umano, quella dimensione familiare appartenente alla tradizione del “San Luca”, pur in un contesto ingranditosi rapidamente e i cui criteri di gestione venivano assumendo carattere manageriale.
Insomma, sembra che anche i dirigenti della fase aziendale non abbiamo mai assunto il freddo volto di burocrati della sanità, memori, nonostante il passare del tempo, di essere eredi di un sogno coltivato a lungo, tenuto vivo con immensi sacrifici, concretizzato solo alla fine di un avventuroso percorso: quello di un ospedale per i poveri, cioè per tutti, frutto di un’idea cristiana della carità.
Prima dei due dirigenti aveva parlato il dott. Nunzio Di Giacomo, ex sindaco di Vallo ed ex commissario del “San Luca” quando – fine anni ’70 – divenne Ospedale Provinciale. Più di tutti, aveva fatto appello ai ricordi, essendo – sono sue parole – “l’ultimo sopravvissuto degli antichi amministratori dell’ospedale”. E gli erano affiorati alla memoria i nomi di don Luca, don Alfredo e don Pietro, i tre sacerdoti che aveva conosciuto personalmente e di cui ricordava alcuni tratti caratteriali. Aveva anche ribadito che l’ospedale fosse il frutto del lavoro certosino, serio, responsabile di questi e altri uomini, come Nicola Rinaldi e Pantaleo Aloia, solo per citarne alcuni.
“Cosa direbbero oggi questi amministratori?”, si era poi chiesto alludendo alle difficoltà attuali.
E, con orgoglio di vallese e vigore giovanile, aveva incitato tutti a muoversi per “salvare l’ospedale”, dove quel “muoversi” significava fare proposte concrete e farle attraverso un organismo che a lui appariva il più idoneo al caso: la Comunità del Parco, che riunisce i quasi novanta sindaci ricadenti nel suo territorio. Dunque, un livello istituzionale ma anche il più vicino alle esigenze dei cittadini. E poi, il primo a fare proposte era stato lui, parlando di telemedicina, di medicina del territorio e delle emergenze.
Ma più che riassumerle, le sue parole ve le facciamo ascoltare cliccando qui sotto:
In definitiva, l’ospedale “San Luca” ha un passato ormai assai lungo, che attraversa l’intero Novecento, ed è diviso tra la fase ideativa e realizzativa – quella i cui protagonisti sono don Luca Petraglia e don Alfredo Pinto – e la fase del concreto funzionamento, assistenziale e gestionale, che arriva fino a noi e che ha numerosissimi altri protagonisti. Il compito dei presenti all’incontro, ma anche quello di tutti i vallesi e i cilentani responsabili, emerso chiaramente lo scorso 18 marzo, è di adoperarsi non solo perché abbia un futuro, ma perché esso sia all’altezza di una tradizione, riesca anzi a superarla e consenta al nostro territorio di uscire definitivamente dalla sua condizione periferica, troppo spesso al traino di scelte altrui non condivise e non condivisibili dal Cilento tutto (foto Raffaele Fierro).
Ottimo servizio e grazie per l’attenzione
Ottimo resoconto che ha focalizzato i momenti salienti dell’evento, mettendo in risalto la circostanza che, nella storia del San Luca, chi ha operato nell’Ospedale, sia che abbia diretto, sia che abbia dato il proprio contributo professionale, si è sempre messo in discussione. L’impegno, la sinergia delle azioni, il rispetto dei ruoli, la capacità di integrazione, sono state le colonne che hanno sorretto l’azione di tutti e da esse è dipesa la validità e la crescita del nostro ospedale. Auguriamoci che si possano adottare tutte le iniziative che ne evitino un ridimensionamento. Il nostro territorio, così particolare, ha ancora bisogno del San Luca e della sua opera.