“Finalmente, il 18 corrente, si è inaugurato il monumento ai nostri morti in guerra, opera artistica pregevole dello scultore Sindoni”, così esordisce il giornalista Ignazio Mandina, firmandosi con lo pseudonimo Iman, nel suo articolo pubblicato in prima pagina sul numero del 31 ottobre 1925 del quindicinale locale “La Voce del Cilento”.
Il 18 ottobre di quell’anno fu per molti vallesi un giorno memorabile. A sette anni dalla conclusione vittoriosa di quella che per tutti era stata la “grande guerra” (per noi, la prima guerra mondiale), vedeva la luce quella statua, commissionata allo scultore Turillo Sindoni, che doveva ricordare il sacrificio in vite umane sopportato dalla cittadina in nome della Patria. L’idea di un monumento al soldato caduto era stata caldeggiata da molti, in particolare dai reduci rientrati in paese non di rado con mutilazioni o vari tipi di invalidità e subito organizzatisi in associazione, ma a lungo era rimasta tale per mancanza di fondi. Solo la sollecitazione delle autorità e, in particolare, del Comune, che vi aveva contribuito finanziariamente nonostante le ristrettezze dovute al difficile periodo postbellico, ne aveva permesso infine la realizzazione. Il sindaco Gaetano Passarelli aveva anche personalmente partecipato alle spese. Si era deciso di collocare simbolicamente il memoriale nella piazza principale, al centro dell’area prospiciente il palazzo comunale. Nonostante gli anni passati, il ricordo dei caduti era ancora vivo e il clima era impregnato della stessa commozione del periodo bellico, anche se quella memoria aveva già assunto un tono retorico e – come vedremo – una chiara coloritura politica.
Di tali accenti retorici ci dà dimostrazione la cronaca del citato Mandina, che così continua il suo racconto della giornata:
Per i morti del nostro capoluogo di circondario non fu uno stereotipo avvenimento, fu un’apoteosi; non una patetica e vacua commemorazione, ma una festa votiva. Gli spiriti dei cittadini, degli intervenuti conterranei di tutto il Circondario; delle rappresentanze politiche, governative e religiose si fondevano in una sinfonica armonia, nell’ondeggiare delle centinaia di vessilli, nel suono dei concerti musicali, nella gamma degli archi e delle bandiere della città parata a festa. Non fu una commemorazione; fu la resurrezione. Si celebrò il rito della consacrazione del Monumento-altare, nel silenzio vibrante all’unisono l’inno della Patria nell’Umanità.
Le rondini eran partite, ma uno stuolo di bianche colombe volteggiava in alto! Eravate voi! I morti nostri e quelli della grande Italia? Sfavillò di mille scintillii, nel sole meridiano, la Vita e la Vittoria, il caduto che risorge tra i riflessi dorati del bronzo. E lo stormo delle bianche colombe, volteggiando, attingeva al monumento e si risollevava in alto, alternando l’ascesa e la discesa; e, mentre scomparvero s’intese il verbo loro, come se dicesse melodicamente: “… Siamo le madri di tutti i morti di guerra; onorate i figli nostri a voi fratelli! Onorateli, con la pace, civilmente operosa e benefica…”. Le colombe scomparvero; la melodia s’attenuò pianissimamente. O, santi, morti di Vallo, assurgete sul Gelbison montagna sacra di luce ed in una gamma d’amore, ripetete ai vivi: Pace! Pace! Pace!
Il tono aulico un po’ risponde alla retorica d’uso e un po’ intende rappresentare il valore sacrale di quella che è una celebrazione civica, una “festa votiva”, alla quale partecipano il vescovo, mons. Cammarota, il sindaco, Passarelli, il rappresentante del governo, l’on. Roberto Cantalupo, e l’esponente politico fascista Andrea Torre. A questi invitati ufficiali si aggiungono le associazioni dei combattenti, le sezioni dei fasci del circondario vallese e molti rappresentanti dei comuni con i loro “centinaia di vessilli”. È una festa della memoria, commossa ma orgogliosa: il paese, infatti, è parato a festa, suonano i “concerti musicali”, tutti onorano il “Monumento-altare”, il ricordo dei morti è sublimato da una messa in scena interpretata come “resurrezione”, cioè come rinascita di quella Patria che aveva attraversato il lavacro della guerra.
Dalla cronaca di Mandina sembra non essere evidente, ma quel clima patriottico è già in larga misura fascista. Cantalupo, sottosegretario alle Colonie, e Andrea Torre sono stati eletti alla Camera da poco più di un anno, nelle controverse elezioni del ’24; entrati da posizioni diverse – nazionalista il primo, liberale il secondo – nel vincente “listone fascista”, i voti ricevuti nel circondario ne hanno fatto i patron politici del territorio. La loro cooptazione nel partito di governo, e quella delle loro clientele, rappresentano la sostanziale adesione di Vallo e del territorio circostante al regime che si va formando.
Di questo clima ci dà conferma il secondo evento di quella stessa giornata: lo scoprimento della lapide dedicata alla famiglia De Mattia, posta sul muro esterno della chiesa di Santa Maria delle Grazie nella stessa piazza Vittorio Emanuele. È ancora il nostro cronista a informarcene:
Dopo l’inaugurazione del monumento […] si discoprì la lapide ai De Mattia, gloriosi cittadini, che entro due secoli, tennero accesa la fiaccola della Libertà.
Ancora una volta, per questa, solennissima e tardiva, cerimonia, ammirammo e sentimmo la parola suadente e convinta del giovane avv. Luigi Scarpa De Masellis, che, con mirabile ed efficace concisione, tessé la storia del patrio riscatto e l’eroica vita di Diego De Mattia seniore e dei nipoti, rievocando le sofferenze, le torture e l’abnegazione di tutta la patriottica famiglia, ch’ebbe un solo partito, un solo ideale: l’Italia; ed in questo ideale, l’oratore riunì simbolo e significato delle due consacrazioni di oggi.
Chiude riportando il testo scolpito sulla lapide, dettato “dall’illustre storiografo nostro, il Senatore Mazziotti”. Per leggerlo, vi rimandiamo alla foto qui sotto.
Anche per questa seconda cerimonia sono presenti amministratori, combattenti, fasci, tutti coi loro gagliardetti e le loro bandiere; anch’essa è attualizzata, cioè il significato conferito alla vicenda dei De Mattia è interpretato alla luce del “riscatto della Patria” compiutosi con la vittoria nella guerra mondiale. Ma quel “riscatto” lo si intende valorizzato davvero solo dal fascismo.
In altri termini, il monumento ai caduti e la lapide ai De Mattia – non a caso inaugurati nello stesso giorno – permettono ai presenti di condurre un unico discorso che tiene insieme Risorgimento e guerra legando entrambi al fascismo, presentatosi e ritenuto agente della “rinascita” dell’Italia, in quanto realizzatore degli ideali rappresentati dai due grandi eventi storici.
L’ambiente cilentano e quello vallese non sono ancora del tutto fascistizzati. Il vescovo Cammarota, pur mantenendosi cauto, non è ostile al “governo nazionale” guidato da Mussolini e da lì a qualche anno, soprattutto dopo la Conciliazione nel ’29, la sua adesione sarà palese. Il sindaco Passarelli personalmente è un liberale, alle elezioni del ’24 era stato convinto dal sottoprefetto di Vallo ad appoggiare la “lista nazionale” promossa dal governo e, in particolare, a sostenere Andrea Torre. Questi era sì entrato nel “listone fascista”, ma le sue posizioni erano ancora quelle liberali non distanti da quel Giovanni Amendola con cui aveva collaborato ai tempi de “Il Mondo”. L’avvocato Luigi Scarpa De Masellis, che parla con vigore patriottico davanti alla lapide dei De Mattia, era il figlio dell’ex decano del foro locale, l’avv. Giuseppe, morto due anni prima ed amico di Amendola. Si era appena iscritto alla sezione locale del partito e due anni dopo sarà il primo podestà del comune di Vallo, mantenendo la carica per circa dieci anni. Lo stesso giornale su cui scriveva Mandina, e che era diretto dall’avv. Tommaso Cobellis, alle elezioni dell’anno prima aveva appoggiato il principale oppositore della lista fascista, ancora Giovanni Amendola, deplorando le intimidazioni e le violenze di cui era stato fatto oggetto, e lo appoggerà fino a quando sarà possibile. Matteo Mazziotti, senatore del Regno e cantore di un Risorgimento cilentano eroico e liberale, citato dal cronista come autore del testo della lapide ai De Mattia, aveva fatto – anche lui come molti, in quell’alba di regime – atto di ossequio al fascismo. Forse pensava che i protagonisti maggiori e minori dell’epopea risorgimentale fossero davvero una sorta di precursori del fascismo. O forse era solo l’opportunismo di chi si era apprestato a salire sul carro del vincitore nella difficile partita politica del dopoguerra italiano.
Insomma, le posizioni dei singoli sono ancora abbastanza diversificate, nella classe dirigente variano il grado di adesione pubblica e di convincimento personale. Disponibile al compromesso, come lo era sempre stata, questa classe è largamente penetrata dal fascismo, che è abile nel giocare tra convenienze e convinzioni. Ma il fascismo con cui si transige nel ’25 è quello nazionalista, che valorizza i combattenti, che realizza gli ideali risorgimentali, che fa emergere la “vera Italia”, quella del Carso e di Vittorio Veneto. O meglio, che si presenta con questo volto, legittimando il suo potere in nome della “rinascita” del Paese e attraverso un uso strumentale della storia remota e recente. Infatti, la vittoria conseguita dalle armi italiane sette anni prima – e che lo scultore Sindoni personifica con una figura di donna a seno scoperto che con una mano protesa verso l’alto tiene una fiaccola e con l’altra raccoglie l’ultimo respiro di un soldato morente – a Vallo è già presentata, in quell’ottobre, come una sorta di vittoria fascista, un evento forzosamente vestito con la camicia nera.
Ma l’adesione vera che molti dei notabili locali avevano già data nel ’25, o che avrebbero dato nel giro di qualche anno, era rivolta, più che al fascismo, al suo capo. A quel Mussolini ritenuto il vero autore di quella valorizzazione nazionale che l’Italia auspicava da tempo.
Ne volete una prova? Eccola:
Concentriamo l’attenzione sulle ultime due quartine. Le domande su “chi mai diede all’Italia valor” e su “chi al consesso dei grandi, la Stella fé d’Italia, temuta brillar”, sono retoricamente poste per arrivare alla risposta voluta: “Fù tutt’opra d’un uom: Mussolini!”. È lui a rendere grandi gli italiani – “i figliuoli latini” – e i soldati caduti – “i prodi che il sangue versar”.
L’autore è il can. Di Vietri, teologo del capitolo cattedrale di Vallo. Se può osannare in questo modo il capo del governo, di sicuro ha l’appoggio del vescovo, chissà quanto anche della curia.
Il fascismo di don Giuseppe – non sapremmo dire quanto convinto e consapevole – esemplifica un po’ quello del clero e di molti ambienti locali, che non erano lontani dal vedere in Mussolini già “l’uomo della Provvidenza”.
Buongiorno, ringrazio l’Autore per gli importanti documenti condivisi. Massimo Sindoni